Olfa è una donna tunisina, viene da una famiglia povera di sole donne, il padre le ha abbandonate. Lei si è «sostituita» all’uomo di casa, ha preso le sembianze maschili, si è battuta, poi ha trovato un uomo che come dice l’ha distrutta. Ma non è stato amore. E neppure sesso. È stata tradizione, obbligo, facciata, anche lei come la madre ha avuto solo figlie femmine, quattro ogni volta che avevano un rapporto sessuale, poi è stata lasciata dal marito. Potrà questa trasmissione di violenza patriarcale che Olfa suo malgrado si porta dentro, pur avendo rigettato la presenza maschile dalla sua vita, arrestarsi? O si abbatterà anche sulle sue figlie, cresciute con la stessa violenza che lei ha subito da piccola, nel malinteso di un amore protettivo che si fa invece repressione, che le porterà altrove: una devastazione emozionale, altre umiliazioni, una scelta che annulla quell’essere donna vissuto sul bordo di una costante vergogna, della paura del corpo, della gioia, del piacere, dell’amore.
È questo il punto di partenza di Les filles d’Olfa di Kaouther Ben Hania (The Man Who Sold His Skin), ritorno della Tunisia in concorso e secondo colpo di fulmine del festival, la storia di una madre e delle sue meravigliose figlie che nel suo potente dispositivo formale riesce a restituire le zone d’ombra, i conflitti, le contraddizioni di questa relazione famigliare, e ciò che racchiude in sé, un’infinita variazione del femminile che si fa universale, che emoziona, interroga e commuove senza alcuna retorica né giudizi e risposte sbrigative troppo spesso legate a soggetti come questo. Che è racconto di un’adolescenza, quasi un Vergini suicide, di vissuti negati, di un sussulto ribelle del corpo che prende molte vie, compresa la sua negazione.

CHI SONO dunque queste donne? La storia da cui parte la regista è un fatto di cronaca accaduto qualche anno fa in Tunisia, e molto mediatizzato: due ragazze, le figlie maggiori di Olfa, fuggite appena adolescenti per unirsi allo «stato islamico», divengono combattenti, sono arrestate. Invece di ricostruire utilizzando la finzione, con la targhetta appunto «da una storia vera» che ne garantisce la verità, Kaouther Ben Hania convoca la stessa Olfa e le sue figlie minori, Eya e Tassir, alla madre affianca un’attrice (Hend Sabri), una sorta di doppio e di alterità della donna, che le pone domande e ne contesta certe convinzioni, e che la interpreterà nei passaggi più dolorosi; altre due attrici (Nour Karoui e Ichraq Matar) saranno le sorelle che non ci sono più, mentre un attore farà tutti i ruoli maschili. La stessa regista sarà a sua volta convocata dagli interpreti più volte, nel fuori campo, che a lei si rivolgono quando le situazioni da affrontare si fanno troppo pesanti.
«Sarà doloroso questo film, dovremo rivivere tutto» dice a un certo punto una delle due ragazze. A proteggerle c’è il lavoro compiuto su se stesse con terapisti, psicologi, in un centro di sostegno, ma soprattutto quella distanza narrativa che permette loro di essere al tempo stesso persone e personaggi, una differenza molto importante, che traccia una linea anche per noi spettatori. Non sappiamo infatti sin dall’inizio cosa è «vero» e cosa è «finzione», anzi la regia sceglie un voluto spaesamento nello smascherare se stessa di fronte alla macchina da presa – nell’intervista sul pressbook l’autrice cita tra i suoi riferimenti Kiarostami.Pur odiando gli uomini, Olfa trasmette alle figlie una retrograda forma di patriarcato che le donne hanno dovuto assimilare per poter sopravvivere. Kaouther Ben Hania

La redazione consiglia:
Zaineb odia la neveE LA NARRAZIONE non segue una linea diritta, procede per frammenti, sbalzi temporali, versioni che si contraddicono: il punto di vista della madre, quello delle figlie. L’amore e la rabbia, il dolore per quella costante mancanza di fiducia, per le botte, per le ingiuste accuse, per l’indifferenza di fronte i reali abusi. La sua preoccupazione materna, quasi un’ossessione legata al sesso, al corpo. Il suo nuovo uomo: era colpa loro se lo aveva perduto, ma loro sanno che le molestava tutte anche le piccoline, e lei non voleva vedere. Le botte per i primi baci coi coetanei o per i capelli blu della maggiore, le sue magliette dark, la musica heavy-metal, quell’adolescenza che stava esplodendo nella Tunisia della rivoluzione, con le ribellioni che ne sono parte, che sono una ricerca di sé, di un modo con cui esprimersi. Poteva capirle lei che lavorava lontana come donna delle pulizie?
E quei capelli blu non erano forse meglio dei niqab arrivati dopo? Bisogno di un’identità anche questo, di un riconoscimento negato? I ricordi fanno male, sono cesure nell’anima; Eya e Tassir escono e entrano continuamente da sé stesse, piangono e ridono, interpretano e vivono come la loro genitrice. Questo smascheramento esibito con la complicità delle ragazze e della madre permette al film di raggiungere quella verità profondamente politica – e mai dogmatica – che nessuna cronaca né ricostruzione restituirà mai.

NON CI SONO risposte alla decisione delle due giovani donne,e nemmeno ai gesti della madre, ci sono segnali, possibili letture, qualcosa che si è spezzato, da cui non si può tornare indietro. Ma non è questo che il film cerca; il suo terreno, è quello di una parola nella quale queste donne che hanno vissuto qualcosa di terribile possono trovare un loro spazio e una loro rappresentazione. Che viene da una scelta, accettare di essere davanti a quella macchina da presa, confrontandosi con la fragilità, le incertezze, i sensi di colpa, dei legami che continuano a esistere nonostante tutto.