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Quel che resta tra pena e regola

Quel che resta tra pena e regola

Femminismo e destra Quel che resta è l’aver consegnato nella mani della destra un nuovo strumento per continuare a difendere un unico modello di famiglia e per continuare a colpire quelle differenti

Pubblicato circa un mese faEdizione del 17 ottobre 2024

Uno dei motivi per cui i diversi schieramenti sulla gestazione per altre persone sono così distanti tra loro è che chi da una parte la ritiene possibile e chi dall’altra la considera un abominio non parlano esattamente della stessa cosa.

Ora che tutto è a terra e che la Gpa è diventata in Italia un reato universale sono proprio queste domande a occupare tutto il campo e a dover preoccupare tutti e tutte. Le domande con cui parte del femminismo contrario alla Gpa si è presentata sulla scena trascinando con sé un arsenale di risposte ben strutturate non sono affatto marginali e dovrebbero continuare ad interrogarci: cosa comporta usare il corpo delle donne come mezzo di produzione per scopi riproduttivi di altri? E trasformare i bambini in merce di acquisto? Esiste un diritto universale alla genitorialità biologica, una sorta di «mistica della genitorialità»? I desideri sono di per sé fonte di un diritto? Dove nasce e dove va a finire la non accettazione del limite che i corpi impongono? E come pensare alla tecnologia che rappresenta il superamento di tale limite? Quali le conseguenze della suddivisione e della specializzazione della maternità nei suoi aspetti gestazionali, sociali e biologici? E quali le conseguenze dell’alienazione del corpo femminile portato al mercato dal sistema neoliberista?

Altrettanto importanti sono state e restano le domande e le obiezioni sollevate dall’altro schieramento, quello a difesa di una regolamentazione sulla Gpa o possibilista sulla pratica. Schieramento che, a dire il vero, ha usato gran parte del proprio tempo per chiedere l’apertura di uno spazio sereno e collettivo di elaborazione. Come rispettare la libertà e l’autonomia di ciascuna donna se vuole concepire per altre persone senza inchiodarla nello schema della vittima o della criminale? Senza cioè ritenerla incapace di fare delle scelte, fossero anche scelte che non ci piacciono? Quali possono essere le conseguenze del negare il diritto di ciascuna a decidere consapevolmente su tutto ciò che riguarda la sua vita e il suo corpo, per esempio rispetto alla legge 194? Cosa comporta l’essere entrate di prepotenza e con atteggiamenti prescrittivi nello spazio di chi dice a una donna cosa può o non può fare?

E ancora: quanto ci si è interrogate, con cura e considerazione, sul desiderio altrui? La questione economica, citata anche nella 194, non c’entra sempre quando una donna decide di avere un figlio? Alcune di noi non stanno allora stabilendo che ci sono ragioni economiche legittime per chi decide di abortire e che ce ne sono altre illegittime per decidere di partorire? Il mercato conta, dunque, ma annulla l’esistenza dei casi in cui sono l’altruismo, la parentela o l’amicizia a determinare la scelta?

La frontiera tra solidarietà e sfruttamento (già perseguito per legge) è davvero così sfuggente? Nella gestazione per altre persone c’è realmente in gioco il tentativo di soppiantare le donne e di appropriarsi della loro funzione riproduttiva oppure, come si è chiesta la femminista Letizia Paolozzi, la potenza del materno ha allargato i soggetti coinvolti nel prendersi cura della vita? E la diffusione di massa, almeno in alcuni paesi, degli anticoncezionali non ha reso quasi sempre l’avere dei figli la conseguenza di un progetto? Infine: che cosa ci autorizza a trascurare o a liquidare il racconto dei figli che crescono felicemente con coppie dello stesso sesso? La Gpa è realmente qualcosa di immutabile e universale o dipende da dove la si colloca? Nei paesi in cui l’adozione per le coppie omosessuali è consentita ha lo stesso senso che nei paesi in cui l’adozione è vietata?

Va riconosciuto che queste ultime domande e proposte di riflessione hanno sempre mantenuto uno sguardo attento sulla realtà e sui suoi orizzonti a cui ora, con la legge Varchi, sembra essere stato messo un sigillo. Preso atto che ci sono, ci sono state prima e ci saranno ancora donne che useranno la propria capacità procreativa come vogliono e preso atto che un reato universale presenta una serie di criticità giuridiche, quel che resta sul campo – come ha scritto tempo fa su questo giornale Lea Melandri – è l’aver consegnato un’arma nella mani della destra che ha scelto di proibire per non riconoscere e di punire per non legittimare. Una destra che ha sempre mescolato ad arte il riconoscimento dei figli al tema della Gpa e che proseguirà su questa strada contro la buona vita delle persone, delle bambine e dei bambini già nati. Quel che resta è l’aver consegnato nella mani della destra un nuovo strumento per continuare a difendere un unico modello di famiglia e per continuare a colpire quelle differenti.

Quel che resta è, infine, la complicità di parte del femminismo con questa destra da cui aveva già avuto tutte le risposte necessarie per agire diversamente: un femminismo che si è affidato alla prescrizione e alla proibizione, a un linguaggio che ha prodotto lacerazioni, che non ha problematizzato il fatto di ritrovarsi ad avere le identiche parole d’ordine delle destre e della chiesa che si conserva da secoli esercitando la sua forza proprio sul terreno della sessualità, della riproduzione, della nascita, della morte e contro le donne. Un femminismo che di fronte a una politica maschile, bellicosa e vendicativa non ha saputo mostrare la propria differenza né occuparsi di ciò che, tra pena e regola, eccede. Che ha imposto a tutte e a tutti i propri pregiudizi e le proprie paure: che possono legittimamente costituirsi nei propri limiti, ma mai in quelli degli altri.

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