Sul quotidiano L’Avvenire del 7 luglio 2023, a proposito della proposta di legge che istituisce il reato universale di utero in affitto, in base al quale la perseguibilità verrebbe estesa all’estero, anche nei paesi dove è legalizzata, si legge: «È la risposta che la maggioranza ha dato ai sindaci che chiedono regole per trascrivere i figli nati da coppie omogenitoriali».

Che questa sia la ragione che sta alla base di una legge giudicata inapplicabile dai maggiori esperti di diritto penale e costituzionale – nessuno Stato firmerà per punire condotte da loro autorizzate -, ne è prova lampante il trafiletto che chiude la lunga intervista di Antonella Mariani alle tre presidenti della Coalizione internazionale per l’abolizione della Gpa. Il riferimento è alla critica di Pro Vita & Famiglia al sindaco di Verona, Damiano Tommasi per la trascrizione dei figli di coppie dello stesso sesso.

«Tommasi – scrivono – apre la strada all’utero in affitto, ovvero alla mercificazione del corpo delle donne, trattate come schiave, e dei bambini considerati come prodotti da acquistare in un supermercato (…) Il sindaco vorrebbe dare priorità ai capricci ideologici, a discapito dei veri diritti, quelli dei bambini». A seguire, la protesta di Pro Vita per il «recente ingresso di Famiglie Arcobaleno nella consulta comunale della famiglia».

Dietro le argomentazioni di facile impatto emotivo, con cui si vorrebbe iscrivere la criminalizzaziome della pratica della gravidanza per altri nella violazione di diritti umani – riduzione delle donne in schiavitù, e dei bambini in merce di acquisto – è evidente che la finalità prima è la difesa della famiglia considerata «naturale», formata da un uomo e da una donna. Il fatto che nuove forme di intimità, uscite dal cono d’ombra e di condanna di una pregiudiziale atavica omofobia siano considerate «capriccio ideologico», è la smentita più evidente che si possa considerare la battaglia contro la Gpa una questione di diritti.

Più ascolto dibattiti e più aumenta l’indignazione per commenti che sono un’offesa, per non dire una violenza, contro non solo il diritto dei figli/e di essere riconosciuti/e, ma anche nei confronti delle donne di decidere del loro corpo, fossero anche scelte che non ci piacciono.

Alienante o no, dono o con pagamento, la gravidanza per altri non può essere equiparata a una «tratta», a una «schiavitù». E, quando ha questo carattere, è già perseguita per legge, e non c’è bisogno di ulteriori criminalizzazioni.

E infine, il femminismo è diviso su questo? Quale femminismo? Non quello di nuova generazione, Non una di meno, che porta avanti da anni le sue posizioni. A dividersi oggi su Gpa, ma anche su prostituzione e transgender, sono per lo più donne femministe che hanno già conosciuto un’altra profonda e mai superata spaccatura: quella sul pensiero della differenza nella elaborazione che ne ha fatto a partire dai primi anni 80 la Libreria delle donne di Milano.

La mia lunga esperienza nel movimento delle donne mi fa pensare chi ci sono conflitti capaci di dar vita a mutamenti significativi e, al contrario, divergenze più radicali che alla lunga avvelenano gli animi. Come nei matrimoni mal riusciti, meglio separarsi e accettare di muoversi su strade diverse.

Volendo evitare arrovellamenti senza via di uscita mi limito a dire che l’«alienazione» che le donne hanno fatto e fanno del loro corpo non si combatte criminalizzandole. Non è certo scoperta di oggi la mercificazione del corpo femminile e neppure, come sembra vedere con scandalo qualcuna, la sua istituzionalizzazione. La donna è stata da sempre una «merce di scambio» tra uomini. La novità da interrogare – non da criminalizzare – è il fatto che con l’emancipazione sono le donne stesse a usare il loro corpo come «moneta di scambio». Per questo serve una pratica politica quale è stata l’autocoscienza.

Al presente la Gpa purtroppo è un’arma che parte del femminismo sta regalando al peggiore dei governi di destra. Impedire il riconoscimento dei figli di coppie omogenitoriali è un atto crudele per la loro crescita e la loro formazione. E a proposito del business a cui darebbe adito la Gpa, vorrei ricordare che le donne per bisogno di sopravvivenza hanno fatto di tutto. Non si tratta di impedirglielo, ma lottare perché non debbano averne bisogno.

Che oggi a invocare i diritti delle donne e dei bambini, a volgere a proprio uso parole nate dalle pratiche del femminismo, come «autodeterminazione», «autonomia», sia lo stesso movimento Pro Vita che abbiamo visto manifestare con violenza davanti alle cliniche dove si praticava l’aborto, dovrebbe quanto meno suscitare qualche sospetto sul fatto che la preoccupazione principale siano la vita della donna e quella del bambino. Quante donne sono state costrette, per imposizione esterna o moralmente interiorizzata, a partorire figli che non desideravano? Siamo sicuri che a far crescere e ad educare figli siano solo genitori biologici e non adulti, di un sesso e dell’altro che li hanno desiderati e amati?

Che cosa ci autorizza a passare sopra violentemente con una legge al racconto che le donne fanno della loro scelta, o a quello di figli che crescono felicemente con copie dello stesso sesso? E anche se volessimo parlare di «schiavitù volontaria», chi può illudersi che basti una proibizione per legge a scoraggiarla?