Aborto, corpo di stato: proclami rivolti a soggetti bisognosi di tutela
Si può parlare davvero di attualità riguardo a un fenomeno – l’attacco alle leggi che da noi ancora garantiscono, sia pure con molti limiti, il diritto a interrompere gravidanze indesiderate – che ricompare puntualmente e con sempre maggiore virulenza, quanto più si allentano i vincoli e i pregiudizi con cui ci è stato consegnato da millenni di patriarcato?
Non si tratta piuttosto di un’ossessione maschile che affonda le sue radici nell’ambiguo legame di amore e odio per quel corpo femminile che può dare la vita e la morte, minacciare la sopravvivenza del singolo come quella della società o della cultura a cui appartiene?
Non si dovrebbe dimenticare che, prima che venisse approvata la Legge 194, in Italia l’aborto era considerato un crimine proprio in difesa della famiglia «naturale» e della «purezza etnica» del nostro Paese. Residui nazionalistici, per non dire razziali, riecheggiano inequivocabilmente nei Family Day, nella propaganda del «movimento per la vita» nei consultori, nelle parole di Bergoglio contro i «sicari» e le «omicide» di uno Stato laico. Non c’è dubbio che ad accendere in questi ultimi anni l’odio che spinge a criminalizzare le donne, ad accanirsi con leggi sempre più repressive e autoritarie sui loro corpi, è, per un verso, la loro maggiore libertà e consapevolezza di non essere più «un mezzo per fine» dettato da altri anche nella sessualità come nella procreazione. Per l’altro, sono le migrazioni, la presenza nel nostro paese di donne straniere più prolifiche delle italiane.
Di pari passo con le prese di posizione contro l’aborto, va infatti la campagna per incentivare le nascite, volte entrambe, in sostanza, a salvaguardare il destino della donna come madre, oggi messo in discussione sotto l’urto dei movimenti femministi in tutto il mondo.
Eppure si parla ancora di aborto come «questione morale» o «questione femminile», come se le donne si mettessero incinte da sole e, per leggerezza o sadismo, decidessero poi di sgravarsi di quel peso. Che si chieda a gran voce la loro ribellione, che si pretenda il rispetto della loro sofferta decisione, che si sostenga il diritto all’autodeterminazione in fatto di maternità, si tratta, però, pur sempre di proclami che parlano di un soggetto considerato di per se stesso debole, bisognoso di tutela e di rappresentanza, e, soprattutto, di un soggetto che porta in solitudine quel potere e quella condanna che è la capacità biologica di fare figli.
Ma è perché la relazione tra i sessi stenta a togliersi di dosso il peso della «naturalizzazione» e «privatizzazione» che ha subito e ad essere assunta per quello che è: un problema politico di primo piano, l’origine stessa della separazione tra il corpo e la polis, tra biologia e storia, tra individuo e società
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