«Non voglio farla in forma anonima. Il mio nome è Younes Ettori, scrivilo. Non ho paura di dirlo, nemmeno se sto chiuso qua dentro. Quello che racconto è tutto vero. Quando parlo ci metto la faccia. Qui lo sanno tutti». Ettori è nato nel marzo del 1993 a Kourigba, città dell’entroterra marocchino a 120 chilometri dalle coste di Casablanca. È arrivato in Italia a 13 anni. Ha avuto per molto tempo un permesso di soggiorno e un buon lavoro da chef, pagato qualche migliaia di euro al mese. «Un classico ragazzino con troppi soldi. Mi sono infognato con la cocaina. Ho iniziato a prendere di tutto: crack, rivotril, fino a 80 pastiglie al giorno. A volte mi stupisco di essere ancora vivo: ma non tocco più niente da quattro anni, neanche se qua dentro gli psicofarmaci te li tirano dietro». Dopo un periodo difficile in cui compie anche dei reati, Ettori torna in riga: ha una casa, una fidanzata, un lavoro. Lo perde con il lockdown. Non riesce a dimostrare il reddito necessario per rinnovare il permesso di soggiorno. Diventa irregolare. Nel 2020 finisce per tre mesi nel Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Torino. Nel 2021 diventano definitive alcune condanne per fatti risalenti a tempo prima. Entra in carcere, per poco più di due anni, scontati tra Vercelli e Fossano. «Là non stavo male. Lavoravo pure. Qua invece è un inferno».

Peggio del carcere?

Molto peggio. Non ci sono regole. Non c’è rispetto. Ti trattano come un animale. Vivi in mezzo alla sporcizia. Non c’è niente da fare, mai. Siamo tutti mischiati: drogati, malati, psichiatrici, gente buttata così. Fanno impazzire anche te. Ogni giorno rischi di ammazzare qualcuno.

Quando è entrato?

Mi hanno portato qui il 26 febbraio scorso, quando è finita la mia pena. Non ho messo neanche piede fuori. Mi hanno detto: dobbiamo identificarti. Ma come? Sto qua da 18 anni, sono stato 2 anni in carcere e devono identificarmi così? Fuori avrei un domicilio, mio cognato può aiutarmi con i soldi, ho una promessa di lavoro. Ma non ho i documenti e non posso averli con questo sistema. E  mi tengono chiuso qua dentro.

È vero che nel Cpr la gente ingoia le lamette e si ferisce?

Certo, succede tutti i giorni. Ti mando le foto (al termine dell’intervista lo fa, ndr). Mangiano lamette, si spaccano le dita, si tagliano. Lo fanno perché vogliono uscire. Non riescono a stare qui dentro.

La redazione consiglia:
Nel Cpr di Milano l’autolesionismo è la regola

Anche a Torino era così?

Sì, poi quel Cpr ha preso fuoco.

Prima di finirci dentro sapeva che in Italia esistono centri di questo tipo?

Lo sapevo, ma non potevo immaginare tutto questo schifo.

Con gli psicofarmaci che succede?

Alla gente che dà fastidio o magari è solo un po’ agitata danno i farmaci. Li danno anche a chi semplicemente li chiede. Per esempio se adesso vado di là dall’infermiere e li chiedo, me li dà. Senza una visita specialistica, senza una ricetta, senza niente. Ma io non prendo più nulla. So che effetti fanno quelle cose. L’altro giorno ho chiesto al medico: perché dai a quell’uomo il rivotril, ma sai a che serve? Lui mi ha detto: per calmare. Ma il rivotril è un anti-epilettico, come calmante non si può dare così, a caso, senza controllo. Se quello è un dottore, io sono un giudice.

Quanti siete dentro?

Il numero cambia di continuo. Ci sono due blocchi. Nel mio ora siamo in venti.

Meglio tornare in Marocco?

Non per me. Sarebbe la mia rovina. Io sto qua da 18 anni. Sono arrivato che ne avevo 13. Ho fatto degli errori nella mia vita e ho pagato. Ora voglio tornare a essere regolare e lavorare. Voglio vivere qua.