La nostra guerra, ogni giorno c’è un 3 ottobre che ritorna
11 anni dalla strage di Lampedusa La partenza dal Senagal, i lager in Libia, la traversata per mare sognando l’Europa: speranze e dolori vissuti in prima persona
11 anni dalla strage di Lampedusa La partenza dal Senagal, i lager in Libia, la traversata per mare sognando l’Europa: speranze e dolori vissuti in prima persona
Il 3 ottobre 2013 368 persone – uomini, donne e bambini – sono finiti in fondo al Mediterraneo, al largo di Lampedusa. Cercavano un futuro migliore, una terra sicura: quando sono arrivati in Libia, nei lager, hanno subito violenza, sono state arrestate, torturate. E poi sono finite in mare. Uomini, donne e bambini, in fondo al mare, quel mare che è diventato un cimitero, questo mare che ha tante onde, onde piene di dolore. Il 3 ottobre 2013 è una giornata che noi ricordiamo sempre, e che continua a ripetersi.
OGNI GIORNO c’è un 3 ottobre che torna, ogni giorno ci sono persone che finiscono in mare, uomini, donne e bambini. Il mare è diventato un campo di battaglia tra chi salva le vite e chi vuole lasciare morire le persone. Il mare è diventato il campo di battaglia di una guerra silenziosa di cui non sentiamo il fragore, però le persone muoiono tutti i giorni gridando i nomi dei loro cari che hanno lasciato indietro.
IO, IBRAHIMA, quando avevo 16 anni sono andato via dalla mia terra, il Senegal, dopo aver perso mio padre. Non vedevo un futuro nel mio paese, sognavo di diventare un giornalista per dare voce a chi non ne aveva. Ho attraversato Mali, Niger, il deserto del Sahara, e sono arrivato nei lager libici. Ho vissuto nove giorni nel deserto dove non avevamo l’acqua per bere, nove giorni che voltando lo sguardo vedevamo solo il deserto. Nove giorni senza dormire, senza cibo sano: mangiavamo couscous e bevevamo acqua sporca, calda.
ABBIAMO ATTRAVERSATO il deserto e abbiamo visto la Libia: le luci ci davano speranza però quando siamo arrivati siamo stati portati in un carcere. Il giorno dopo siamo stati messi in una Mercedes, nel portabagagli, uno dopo l’altro come fossimo animali. Siamo stati portati da una prigione all’altra, spesso ci picchiavano.
C’erano tre ragazzi che parlavano inglese, discutevano di come scappare. I libici li hanno sentiti: sono entrati, hanno cominciato a picchiarli con il Kalashnikov e poi hanno sparato su di loro, li hanno portati via. Quando sono tornati, hanno infierito pure su di noi, uno dopo l’altro. Quel giorno mi hanno picchiato molto, mi hanno lasciato delle ferite, ho ancora le cicatrici, avevo 16 anni, il sangue mi usciva dappertutto.
Quando sono andato da papa Francesco, a Casa Santa Marta, ha toccato le mie cicatrici e mi ha detto «Ibrahima, ci sono ferite che guariscono, ma ci sono ferite che non guariscono mai». Ho segni sul mio corpo, sembrano quelli che i miei bisnonni avevano durante lo schiavismo. Lo schiavismo è tornato e lo stanno vivendo tutti quelli che finiscono nei lager della Libia. La mia schiavitù è continuata fino al giorno in cui ho potuto pagare e mi hanno lasciato uscire.
VICINO AL MARE siamo rimasti per giorni, in attesa che fosse calmo. Quando siamo riusciti a partire eravamo tanti, avevo paura di salire sul gommone. I miei compagni di viaggio mi hanno detto: «Ibra, ricordi tutto quello che hai passato? Ora devi solo salire sul gommone e andare in Europa. Se torni indietro ti uccidono». Quando siamo arrivati nelle acque internazionali il gommone ha cominciato a imbarcare acqua. Per fortuna è arrivata una nave Ong che ci ha salvato.
Dopo di noi c’era un gommone con 120 persone, uomini, donne e bambini. Solo in quattro si sono salvati. Vedevo che la nave Ong portava dei sacchi neri a bordo e ho chiesto «cosa c’è dentro?». Mi hanno detto: «Sono i cadaveri di chi non ce l’ha fatta». Subito dopo sono saliti i quattro sopravvissuti, ho chiesto «perché state piangendo?». Uno mi ha risposto: «Ho perso mia moglie e il mio bambino, sono finiti in acqua». Quel giorno ho cercato di dimenticare il mio dolore perché avevo visto persone che hanno vissuto esperienze peggiori delle mie. Il mare è diventato un cimitero di nomi e cognomi e dati di nascita.
SPESSO QUANDO si parla di Lampedusa o Cutro si citano numeri però non sono numeri, sono nomi, sono vite, persone che hanno lasciato i loro cari, sognavano di avere un futuro migliore, di andare in un paese sicuro. Io, Ibrahima, vedo tanti che parlano di muri. I muri dividono le persone, uccidono le persone, creano guerre, disuguaglianze, odio. Invece potremmo costruire ponti, come quelli che collegano Venezia, per unire, per creare pace.
Quando ad agosto lo yacht Bayesian è affondato, a bordo c’erano persone ricche con occhi azzurri, capelli biondi. Sono state salvate. Hanno mandato le motovedette, la guardia costiera. Però quando ci sono persone che scappano dalla guerra, dalla fame, dalla miseria, dal terrorismo, dal cambiamento climatico, persone che a casa muoiono di sete e fame, non vengono salvate. Vengono dimenticate, abbandonate in mare.
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