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Il trauma del «presunto scafista», quando la salvezza finisce dietro le sbarre

Il trauma del «presunto scafista», quando la salvezza finisce dietro le sbarreUn’immagine da «Io capitano» di Matteo Garrone

Maysoon, Marjan, Samir e gli altri «capitani» Chi frequenta gli sbarchi sa che le modalità di identificazione avvengono sempre allo stesso modo. Procedure veloci e standardizzate effettuate dalle forze dell’ordine, con poco ausilio di adeguata mediazione linguistica e nessuna presenza di figure legali

Pubblicato circa un mese faEdizione del 3 ottobre 2024

Si sa che attraversare il mare su un gommone fatiscente o un’imbarcazione di fortuna è cosa assai pericolosa. E lo sanno tutte le persone che ogni giorno lo solcano rischiando la vita per mano di trafficanti senza scrupoli. Quello che non sanno è un altro modo in cui quel mare che li separa dalla salvezza può essere estremamente pericoloso. C’è un rischio che non può essere contemplato da chi parte: essere accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, «presunto scafista».

Abbiamo conosciuto le storie di Maysoon e Marjan, le due attiviste iraniane sbarcate e arrestate in Calabria che, invece di ottenere la sicurezza e la protezione che meritavano, hanno ricevuto la grave accusa di essere delle trafficanti di esseri umani. Non abbiamo conosciuto le storie di centinaia di altri uomini e donne incarcerate con procedimenti in corso o con condanne definitive con la stessa accusa e lo stesso copione.

Per ogni arrivo qualcuno deve essere accusato di aver favorito illegalmente l’ingresso di disperati e disperate, come lui o lei, sulle coste italiane. Chi frequenta gli sbarchi sa che le modalità di identificazione dei «capitani» avvengono sempre allo stesso modo.

Procedure veloci e standardizzate effettuate dalle forze dell’ordine, con poco ausilio di adeguata mediazione linguistica e nessuna presenza di figure legali, prevedono che gli stessi compagni di viaggio divengano «testimoni accusatori» di chi avrebbe in qualche modo aiutato a compiere la traversata, complice dei veri trafficanti, il designato «presunto scafista».

Samir, giovane ragazzo egiziano arrestato pochi mesi fa, ha manifestato inizialmente un quadro clinico stabile, sembrava avere retto a più di due mesi di detenzione in Libia e alle torture subite; sulle sue gambe e sulla sua schiena ne porta i segni. Esiti da colpi di bastone e bruciature marchiano la sua pelle. Poco alla volta, giorno dopo giorno, mentre Samir prendeva coscienza della sua grave posizione giuridica, ha iniziato a manifestare sintomi dissociativi e dispercezioni, sente delle voci nella testa e vede di fronte a sé figure minacciose che lo vogliono uccidere.

Samir ha cominciato a vivere nel terrore. Una veloce e inesorabile regressione clinica, il suo corpo e la sua postura si modificano, non riesce più a deambulare da solo e soprattutto non riesce a spiegarsi perché si trova in carcere, pensa a un maleficio. Samir non contiene più gli sfinteri e verbalizza di sentire vergogna nei confronti di alcuni compagni di cella che lo scherniscono. Il quadro clinico non rientra, a oggi peggiora.

Molte delle persone ascoltate in carcere accusate di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina inizialmente sembrano avere una buona tenuta fisica e psicologica. Ciò che mantiene integre le funzioni psicologiche è l’esperienza sana di avercela fatta, di essere sopravvissuti, di sentirsi in sicurezza, e la speranza di portare a termine il proprio progetto migratorio: contribuire a sostenere economicamente la famiglia e la comunità di origine.

Quando si ritrovano in carcere con accuse che sentono false, sperimentano il vissuto di essere costrette a interrompere definitivamente le loro aspettative di vita. Le loro condizioni psicofisiche peggiorano drasticamente: l’arresto, la detenzione ingiusta, le lunghe pene, vengono vissute come ritraumatizzanti o come traumatizzazione secondaria e comportano l’insorgenza a scoppio ritardato di un Ptsd (disturbo post traumatico da stress) che sino ad allora era sotto controllo o addirittura non ancora insorto.

L’esperienza della reclusione è una delle più penose che l’essere umano possa sperimentare. Una tra le più traumatiche a livello psicologico e fisico che si possano subire, a maggior ragione quando non ci si sente responsabili dei reati di cui si è accusati. La storia di Samir rimane reclusa dentro quattro mura insieme a quella di altre centinaia di persone che attualmente vivono la sua situazione. Li dovevamo solo proteggere per loro diritto. E invece sono stati torturati anche in Italia.

* psicologa e psicoterapeuta penitenziaria, membro del Consiglio direttivo di Mediterranea Saving Humans

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