Il trauma del «presunto scafista», quando la salvezza finisce dietro le sbarre
Maysoon, Marjan, Samir e gli altri «capitani» Chi frequenta gli sbarchi sa che le modalità di identificazione avvengono sempre allo stesso modo. Procedure veloci e standardizzate effettuate dalle forze dell’ordine, con poco ausilio di adeguata mediazione linguistica e nessuna presenza di figure legali
Maysoon, Marjan, Samir e gli altri «capitani» Chi frequenta gli sbarchi sa che le modalità di identificazione avvengono sempre allo stesso modo. Procedure veloci e standardizzate effettuate dalle forze dell’ordine, con poco ausilio di adeguata mediazione linguistica e nessuna presenza di figure legali
Si sa che attraversare il mare su un gommone fatiscente o un’imbarcazione di fortuna è cosa assai pericolosa. E lo sanno tutte le persone che ogni giorno lo solcano rischiando la vita per mano di trafficanti senza scrupoli. Quello che non sanno è un altro modo in cui quel mare che li separa dalla salvezza può essere estremamente pericoloso. C’è un rischio che non può essere contemplato da chi parte: essere accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, «presunto scafista».
Abbiamo conosciuto le storie di Maysoon e Marjan, le due attiviste iraniane sbarcate e arrestate in Calabria che, invece di ottenere la sicurezza e la protezione che meritavano, hanno ricevuto la grave accusa di essere delle trafficanti di esseri umani. Non abbiamo conosciuto le storie di centinaia di altri uomini e donne incarcerate con procedimenti in corso o con condanne definitive con la stessa accusa e lo stesso copione.
Per ogni arrivo qualcuno deve essere accusato di aver favorito illegalmente l’ingresso di disperati e disperate, come lui o lei, sulle coste italiane. Chi frequenta gli sbarchi sa che le modalità di identificazione dei «capitani» avvengono sempre allo stesso modo.
Procedure veloci e standardizzate effettuate dalle forze dell’ordine, con poco ausilio di adeguata mediazione linguistica e nessuna presenza di figure legali, prevedono che gli stessi compagni di viaggio divengano «testimoni accusatori» di chi avrebbe in qualche modo aiutato a compiere la traversata, complice dei veri trafficanti, il designato «presunto scafista».
Samir, giovane ragazzo egiziano arrestato pochi mesi fa, ha manifestato inizialmente un quadro clinico stabile, sembrava avere retto a più di due mesi di detenzione in Libia e alle torture subite; sulle sue gambe e sulla sua schiena ne porta i segni. Esiti da colpi di bastone e bruciature marchiano la sua pelle. Poco alla volta, giorno dopo giorno, mentre Samir prendeva coscienza della sua grave posizione giuridica, ha iniziato a manifestare sintomi dissociativi e dispercezioni, sente delle voci nella testa e vede di fronte a sé figure minacciose che lo vogliono uccidere.
Samir ha cominciato a vivere nel terrore. Una veloce e inesorabile regressione clinica, il suo corpo e la sua postura si modificano, non riesce più a deambulare da solo e soprattutto non riesce a spiegarsi perché si trova in carcere, pensa a un maleficio. Samir non contiene più gli sfinteri e verbalizza di sentire vergogna nei confronti di alcuni compagni di cella che lo scherniscono. Il quadro clinico non rientra, a oggi peggiora.
Molte delle persone ascoltate in carcere accusate di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina inizialmente sembrano avere una buona tenuta fisica e psicologica. Ciò che mantiene integre le funzioni psicologiche è l’esperienza sana di avercela fatta, di essere sopravvissuti, di sentirsi in sicurezza, e la speranza di portare a termine il proprio progetto migratorio: contribuire a sostenere economicamente la famiglia e la comunità di origine.
Quando si ritrovano in carcere con accuse che sentono false, sperimentano il vissuto di essere costrette a interrompere definitivamente le loro aspettative di vita. Le loro condizioni psicofisiche peggiorano drasticamente: l’arresto, la detenzione ingiusta, le lunghe pene, vengono vissute come ritraumatizzanti o come traumatizzazione secondaria e comportano l’insorgenza a scoppio ritardato di un Ptsd (disturbo post traumatico da stress) che sino ad allora era sotto controllo o addirittura non ancora insorto.
L’esperienza della reclusione è una delle più penose che l’essere umano possa sperimentare. Una tra le più traumatiche a livello psicologico e fisico che si possano subire, a maggior ragione quando non ci si sente responsabili dei reati di cui si è accusati. La storia di Samir rimane reclusa dentro quattro mura insieme a quella di altre centinaia di persone che attualmente vivono la sua situazione. Li dovevamo solo proteggere per loro diritto. E invece sono stati torturati anche in Italia.
* psicologa e psicoterapeuta penitenziaria, membro del Consiglio direttivo di Mediterranea Saving Humans
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