Sotto lo sguardo dei leoni delle madrasse del Registan di Samarcanda, storico passaggio della via della Seta e oggi della Tav, si svolge domani, per due giorni, un vertice dell’«altro mondo» con i leader di Russia, Cina, India, Pakistan e Turchia. Per il cinese Xi Jinping che ieri era in Kazakhistan mentre arrivava anche papa Bergoglio, si tratta del primo viaggio all’estero in due anni di era Covid e del primo incontro in presenza con Putin dal 4 febbraio scorso. Ma ovviamente è la guerra (anzi le guerre) con le conseguenze strategiche ed economiche al centro degli incontri a margine di questo vertice dall’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (Sco).

L’indiano Narendra Modi a Samarcanda si trova per la prima volta faccia a faccia con il cinese Xi Jinping dall’inizio dello scontro sul confine himalayano del luglio del 2020, (quando 20 soldati indiani e 4 cinesi persero la vita), mentre qui il leader turco Erdogan deve parlare con Putin di tutto o quasi, dal grano ucraino, alla Siria, alle ostilità riesplose in queste ore tra Armenia e Azerbaijan, altra linea di conflitto tra Mosca e Ankara. Mentre l’Uzbekistan, per ovvi motivi geopolitici e di confine, si pone sempre più come «piattaforma per negoziati e discussioni» sull’Afghanistan, dopo la conferenza internazionale “Afghanistan Security and Ecomic Development” tenutasi a luglio a Tashkent e alla quale hanno partecipato delegazioni di oltre venti paesi e istituzioni internazionali. Anche l’Iran qui a Samarcanda – dove si parla per lo più tagiko, ovvero farsi – muoverà le sue pedine diplomatiche nel momento in cui il segretario di stato Usa Blinken esclude un accordo con Teheran sul nucleare.

Nata nel 2001 come meccanismo per favorire la risoluzione di dispute territoriali tra i sei paesi aderenti – Cina, Russia, Kazakhistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan (membri osservatori Mongolia, India, Iran, Pakistan, Turchia). – l’organizzazione è andata progressivamente istituzionalizzandosi, intensificando la cooperazione tra i suoi membri tanto su questioni di sicurezza quanto in ambiti come quello economico, energetico e culturale. Il piano militare e di sicurezza è senz’altro quello più rilevante, all’insegna della comune volontà degli aderenti di contrastare tre fenomeni che sono identificati come le principali minacce alla sicurezza regionale: il terrorismo, l’estremismo e il separatismo. La rivolta di gennaio in Kazakhistan, con l’intervento russo, e le recenti proteste di luglio in Karakalpakstan (Uzbekistan) ne sono un esempio. Nel concreto questa è un’area di competizione militare tra Est e Ovest e la Sco riunisce, come tiene a sottolineare nel suo discorso di inaugurazione il presidente uzbeko Shavkat Mirziyoyev, una vastissima area geografica con circa la metà della popolazione del pianeta e un Pil complessivo degli stati membri che è circa un quarto del valore totale globale.

Quello militare, insieme ai programmi infrastrutturali cinesi della Belt and Road Initiative, è l’aspetto più rilevante. Pochi giorni prima della controffensiva ucraina e della disordinata ritira russa da Karkhiv, Putin a Vladivostok aveva presenziato alle esercitazioni militari Vostok-2022 con i paesi membri dello Sco e la Cina, che aveva inviato un’imponente delegazione militare con oltre duemila soldati e 300 mezzi, aerei da combattimento e tre navi da guerra, a sottolineare il rapporto che intercorre tra Mosca e Pechino. Alle manovre, che si svolgono ogni quattro anni, avrebbero preso parte 5mila militari da diversi Paesi ex sovietici e in totale nelle esercitazioni sono stati coinvolti 50mila soldati.

Ma attenzione a non sopravvalutare in una sola direzione la situazione militare e politica: la Vostok 2022 è stata una risposta alle esercitazioni congiunte della “Regional Cooperation 2022” che si sono tenute dal 10 al 20 agosto a Dushambé tra le forze armate degli Stati Uniti e quelle delle ex repubbliche post sovietiche di Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan (dove per altro i russi hanno la base militare 201), oltre a Mongolia e Pakistan. Senza contare che qui in Asia centrale Kazakhistan e Uzbekistan si sono dichiarate neutrali nei confronti della guerra in Ucraina mentre Tagikistan e Turkmenistan non hanno mai preso ufficialmente posizione sul conflitto.

È stato comunque proprio a Vladivostok che il numero tre della gerarchia cinese Li Zhanshu, ha dichiarato che «la Cina è felice di vedere che sotto la guida del presidente Valdimir Putin l’economia russa non è stata sconfitta dalla dure sanzioni imposte dagli Stati Uniti e dagli altri Paesi occidentali». Qui a Samarcanda Putin e Xi Jinping sono chiamati in qualche modo a confermare quella «amicizia senza limiti» proclamata a Pechino alla vigilia della guerra in Ucraina.

In realtà tra Mosca e Pechino intercorre un rapporto ambiguo portato avanti dalla Cina in questi mesi: una «neutralità pro-russa», come l’hanno definita diversi analisti. Molta retorica anti-Usa e anti-Nato – musica per le orecchie del Cremlino – anche se Pechino non ha oltrepassato la linea rossa violando le sanzioni né ha fornito aiuti militari a Mosca. In cambio, però, gli affari tra l’Orso e il Dragone sono cresciuti: su tutti, il gas russo che Pechino continua a comprare e il nuovo gasdotto che passerà attraverso la Mongolia e che comunque non sarà operativo prima di un paio d’anni. Ma c’è anche, e soprattutto, l’export cinese verso il vicino come macchine, televisori e telefonini, che hanno aiutato Mosca a colmare il vuoto lasciato dalle aziende straniere: nel secondo trimestre, l’81% delle importazioni di auto nuove in Russia sono state made in China, mentre Xiaomi è salito al primo posto tra i produttori di smartphone nella Federazione russa. Fattori che non si ignorano dal centro dell’Asia all’Estremo Oriente: l’Indonesia, per esempio, ha confermato che Xi Jinping e Putin saranno presenti al vertice di Bali del G20 a novembre. La contrapposizione tra “West and the Rest”, presentata come a una sfida tra democrazie e autoritarismi, esiste ma offre anche più sfumature di quanto non si pensi.