Per una quindicina d’anni, dalle elezioni del 2007 alla terribile scelta di spingere l’esercito dentro i confini dell’Ucraina, il presidente Vladimir Putin ha sempre amministrato la Russia seguendo il modello della democrazia sovrana, che nei piani del suo estensore originale, l’ex ministro Vladislav Surkov, oggi a quanto sembra lontano dalle scene, doveva somigliare a una grande recita rigidamente diretta dal Cremlino.

Quella recita prevedeva un ruolo alla Duma per il partito di governo Russia unita; per i comunisti di Gennady Zyuganov, che pure a Putin avevano conteso il potere alla fine degli anni Novanta; per un certo numero di formazioni liberali ispirate ai più moderni movimenti europei; e persino per le tesi radicali di Vladimir Zhirinovsky e del suo partito populista Ldpr. Insomma, una finzione collettiva aperta a chiunque accettasse senza condizioni la supremazia di Putin e il controllo di Surkov, con una sola eccezione: la corrente nazional bolscevica dello scrittore Edvuard Limonov, della rockstar Igor Letov e del filosofo Aleksander Dugin, sempre e comunque ai margini del dibattito pubblico.

Sembra oggi che la guerra in Ucraina abbia modificato il sistema con cui Putin gestisce il potere. Che il concetto di sovranità abbia preso definitivamente il sopravvento su quello di democrazia. E che il Cremlino adesso accetti di buon grado e in modo esplicito non solo gli esponenti della nuova destra, ma anche gli strumenti che questi intendono adoperare.

L’omicidio di Daria Dugina rappresenta in questo quadro un segnale preoccupante. È una cupa svolta nelle vicende del paese. Gli inquirenti hanno chiuso il caso in due giorni, ma in Russia storie simili risolte troppo in fretta hanno mostrato negli anni passati la mancanza di professionalità degli apparati di sicurezza, anziché la loro efficienza. Nulla nella versione fornita dalle autorità pare convincente. Né l’identità della presunta assassina, una Natalia Vovk, quarantatré anni, passaporto ucraino e addestramento nel Battaglione Azov; né la possibilità che abbia usato la figlia dodicenne per piazzare un ordigno esplosivo sull’auto di Dugina; né tanto meno la fuga in Estonia ripresa chilometro dopo chilometro da decine di telecamere nel momento in cui la sicurezza nel paese si trova da mesi al massimo livello. La versione è debole. I sospetti sugli apparati russi crescono. E dipendono certamente anche dal fatto che Dugina fosse la figlia di Alexander Dugin, e che abbia passato gran parte della propria esistenza a sostenere le ragioni dell’assalto all’Ucraina. Era, in un certo senso, la vittima perfetta di una guerra che è entrata in Russia, e che Putin in qualche modo deve risolvere.

Colpisce in particolare quel che la morte di Dugina ha suscitato in Russia. Non è stata una reazione emotiva. Si è trattato nella migliore delle ipotesi di una risposta politica. Nel suo messaggio di cordoglio Putin ha definito l’omicidio «vile e crudele» e ha parlato di Dugina come di un «vero cuore russo», che ha «mostrato con i fatti che cosa significa essere patrioti». Dopodiché le ha assegnato postuma una onorificenza dell’Ordine del Coraggio, che il Cremlino riconosce agli eroi della patria.

«La vendetta non ci basta, ora vogliamo la vittoria», aveva detto lunedì Alexander Dugin. Ieri, alla camera ardente, ha usato parole ancora più esplicite. «Daria è vissuta nel nome della vittoria ed è morta per la vittoria. È morta per il popolo russo. Per la nostra nazione, per l’ortodossia, per l’impero». Più che un’orazione funebre, la sua è sembrata una dichiarazione di intenti. Centinaia di persone hanno assistito alla cerimonia. Fra loro molti esponenti politici di questa nuova Russia, sempre più votata alla guerra, e disposta, adesso, anche a celebrare una morte violenta in nome di piani e di programmi aggressivi.

Sulle ragioni di quella morte gli interrogativi sono enormi. Il paese, prima o poi, sarà costretto ad affrontarli..