La frase più importante Vladimir Putin l’ha pronunciata a metà del discorso con cui ieri si è rivolto alla nazione dopo il terribile attacco in una sala concerti di Mosca: 143 persone uccise a sangue freddo a colpi di kalashnikov, secondo i bilanci più recenti delle autorità. «Ai terroristi – ha detto il capo del Cremlino – è stata aperta una finestra per entrare in Ucraina. Soltanto l’intervento delle forze di sicurezza ha impedito che il piano di fuga andasse in porto. I responsabili saranno puniti».

ARRIVA, QUINDI, A KIEV la pista che Putin ha deciso di seguire. Nonostante la rivendicazione dell’Isis nelle ore successive all’attentato. Nonostante il materiale diffuso ieri pomeriggio attraverso canali estremisti, che prova il legame fra il commando che ha colpito al Crocus e lo Stato islamico nella sua ultima incarnazione. Nessuna possibilità a questo punto delle indagini deve essere esclusa. Neanche quella di un ipotetico passaggio attraverso la frontiera di guerra.

Dopotutto, quattro degli uomini arrestati ieri sono stati fermati nella regione di Bryansk, quattrocento chilometri a sudovest di Mosca, verso il confine con Bielorussia e Ucraina. Avevano tirato dritto a un posto di blocco. La pattuglia della polizia ha deciso di inseguirli. L’auto dei fuggiaschi si è rovesciata sulla strada. Il resto i media lo hanno mostrato per tutto il pomeriggio su canali ufficiosi e ufficiali. Uomini storditi, in manette, costretti a rispondere a insulti e domande. «Avevano contatti con l’Ucraina», hanno detto gli investigatori del Fsb, il servizio di sicurezza federale. Così, i legami con l’Isis, decisamente più concreti, sono passati in secondo piano.

Nel complesso sono undici gli arresti condotti dall’antiterrorismo in quarantotto ore fra Mosca e la regione di Bryansk. Tutti uomini, «tutti stranieri», ha precisato il ministero dell’Interno, che significa in sostanza centrasiatici, forse tagiki, di fede musulmana.

LE RAGIONI DELL’ASSALTO alla sala concerti restano, però, ambigue. Uno dei presunti terroristi, un tipo alto e magro sul cui nome le autorità hanno mantenuto per adesso il riserbo, ha ammesso di fronte alla telecamera di un cellulare di avere ucciso «per denaro». Cinquecentomila rubli, circa cinquemila euro, metà prima del lavoro su una carta di deposito e metà a cose fatte. Una cifra troppo bassa per essere credibile. L’uomo ha detto di avere avuto l’incarico attraverso Telegram, sul canale in cui seguiva i sermoni di un predicatore. I soldi li avrebbe ricevuti da un certo Abdullah, arrivato in Russia dalla Turchia il 4 marzo. Lo stesso vale per le armi: fucili automatici trovati nell’auto della fuga.

Informazioni ancora troppo vaghe, e ottenute dalla polizia con metodi per nulla distanti dalla tortura. Si trova sulla rete un altro terribile filmato in un cui un agente spinge a terra uno dei sospetti, gli mozza un orecchio con un coltello e gli tappa la bocca con quel brandello di carne. L’uomo dice di chiamarsi Rajab Alizade e di avere trent’anni. Nel video si sente un altro poliziotto gridare: «Rispondi meglio che puoi! Ti rimane soltanto un orecchio!».

QUESTO È IL CLIMA che si vive dopo la strage. Al teatro Crocus, le parole di Putin, «hanno ucciso come i nazisti». Dopodiché un altro riferimento a Kiev: «Negli ultimi anni l’Ucraina ha condotto attività terroristiche sistematiche nei confronti dei nostri cittadini».

Il discorso arriva in un momento particolare negli equilibri del paese. Il largo successo di Putin alle elezioni della scorsa settimana sembra avere condotto la Russia in una nuova fase. Nella cerchia del Cremlino il termine «guerra» ha preso per la prima volta il posto di «operazione speciale». Sui media pubblici si è tornati a parlare di mobilitazione. Trecentomila uomini per una nuova spinta in Ucraina. Secondo il portale indipendente Meduza, ai network dello stato le autorità hanno chiesto di enfatizzare la «pista ucraina».

Tutto lascia, quindi, intendere che Putin voglia sfruttare lo sgomento suscitato nella società russa da questo sanguinoso attacco per completare la missione in Ucraina. Sgomento, peraltro, ce n’è in abbondanza nelle strade.

AL CROCUS le squadre di soccorso continuano a scavare. Saranno necessari giorni per finire. Il timore che il numero di morti cresca è concreto, perché molti dei feriti, ammettono negli ospedali, sono in condizioni critiche. I moscoviti donano il sangue, lasciano fiori per strada, ricordano le vittime sui social network. Per oggi è stato indetto il lutto nazionale
Nulla, però, può allontanare la sensazioni di avere di nuovo di fronte una crisi come quella che la Russia ha vissuto alla fine degli anni Novanta.