Enrico Gagliano insegna al Dipartimento di Ingegneria Civile, Chimica, Ambientale e dei Materiali dell’Università di Bologna.

Fa parte del gruppo Energia per il futuro, coordinato dai professori Vincenzo Balzani e Nicola Armaroli, che già nel 2014 indirizzò una lettera al governo Renzi per segnalare che «la fine dell’era dei combustibili fossili è inevitabile». Quasi dieci anni dopo, si confronta con il piano di espansione del consumo di gas metano dei governi Draghi e Meloni.

Ha senso, per un paese europeo, investire in nuove infrastrutture «pesanti» per aumentare l’approvvigionamento di gas metano?

Decisamente no. Partiamo dalle conseguenze del conflitto russo-ucraino: le politiche di diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico (gas soprattutto) hanno portato l’Italia a intensificare i rapporti con Stati politicamente instabili, potenzialmente ostili e distanti dal nostro concetto di democrazia (come Algeria, Libia, Azerbaijan), e a valutare la possibilità di realizzare nuove infrastrutture. È come voler curare il male (la dipendenza dal gas) con lo stesso male (altro gas). Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (Iea), le operazioni petrolifere e del gas sono la principale fonte di emissioni dal settore energetico. Nel 2022 le compagnie del gas avrebbero potuto tagliare le perdite di metano del 75% spendendo meno del 2% del reddito del 2022. Da anni la Ong americana Clear Air Task Force (Catf) documenta le emissioni di metano da numerosi impianti di stoccaggio e distribuzione del gas in Italia, ma queste non cessano. Priorità dovrebbe essere data alle normative e ai controlli che impediscano questo spreco.

Quali rischi comporta per la transizione ecologica l’aumento della disponibilità/offerta di metano?

A confidare nella disponibilità illimitata di metano si rischia di procrastinare il raggiungimento dei target energetici e climatici fissati dall’Unione europea e dagli accordi internazionali. Il metano è un inquinante climatico con una durata atmosferica di circa un decennio, e ha un impatto climalterante 85 volte quello della CO2 su un arco di 20 anni. È anche il secondo gas ad effetto serra umano più importante dopo l’anidride carbonica (570 milioni di tonnellate/anno). Secondo l’Ipcc, il taglio del metano è la più grande opportunità per rallentare il riscaldamento globale da qui al 2040. Le emissioni di metano provocate dall’uomo sono responsabili per il 25% del riscaldamento globale. L’estrazione, la lavorazione e la distribuzione di petrolio e gas rappresentano il 23% delle emissioni. La mitigazione del metano può fornire una riduzione delle temperature di quasi 0,3° C nei prossimi due decenni, evitare 255 mila morti premature e 26 milioni di tonnellate di perdite nei raccolti di frumento, soia, mais e riso.

 Il recente accordo tra Ue e Norvegia per forniture certe di metano rischia di rendere obsolete,prima ancora di essere realizzate, infrastrutture che guardano all’area del Mediterraneo?

La realizzazione di nuove infrastrutture nell’area del Mediterraneo è parte integrante del cosiddetto Piano Mattei, per i più avvertiti Piano Descalzi (da Claudio, recentemente riconfermato per la quarta volta alla guida di Eni), che la presidente Giorgia Meloni dovrebbe presentare in ottobre e potrebbe arricchirsi anche del raddoppio della capacità di trasporto del Tap, che arriva in Puglia. Nei prossimi 25-30 anni, però, è probabile che i consumi di gas andranno a ridursi progressivamente sino ad essere azzerati. In un simile scenario ci sarà abbastanza spazio per le infrastrutture dell’affidabile e democratica Norvegia e per quelle del Piano Descalzi? I 15-20 anni di ammortamento dei costi di realizzazione di un gasdotto sono un tempo molto lungo in cui molte variabili potrebbero giocare a favore o contro la sostenibilità economica dell’investimento.

La rivista «Nature» da anni ci invita a considerare l’esigenza di mantenere sotto terra le riserve di metano già scoperte e di interrompere, quindi, le prospezioni. L’Italia si sta adeguando?

Lo studio di Christophe McGlade e Paul Ekins risale al 2015. Da allora i quantitativi di gas estratto in Italia sono diminuiti perché gli interessi delle imprese, Eni in testa, guardavano oltre i confini nazionali, anche se lo Sblocca Italia nella sua prima versione (novembre 2014) prevedeva l’apertura di nuove aree alle attività di ricerca di idrocarburi. La ricerca di Nature veniva pubblicata mentre in Italia eravamo nel pieno della stagione referendaria No Triv, che costrinse la maggioranza del governo Renzi a vietare nuove attività di ricerca e di estrazione a mare a meno di 12 miglia marine dalla costa e che culminò nelreferendum dell’aprile del 2016. Quel divieto ha costituito un argine temporaneo. L’approvazione del Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (PiTESAI), avvenuta dopo tre anni di tribolazione e senza il coinvolgimento delle autonomie locali, avrebbe dovuto regolamentare una volta per tutte le attività di prospezione e ricerca, ma il governo Draghi, complici le Regioni, ha approvato solo un insieme di criteri di valutazione, a cui gli effetti del conflitto russo-ucraino hanno dato il pretesto per derogare, consentendo la ricerca e la coltivazione di gas anche a meno di 12 miglia marine dalla costa. Nel frattempo, abbiamo assistito al rinnovo automatico di concessioni scadute – su tutte quelle in Val D’Agri e nell’Alto Adriatico tanto care ad Eni – in virtù di un meccanismo voluto dal governo Monti che sarebbe stato possibile abrogare con un decreto.