Stoccaggio di Co2, conflitto d’interessi a Ravenna
ReCommon La falsa soluzione di Ravenna è il nuovo rapporto di ReCommon sul primo progetto di cattura e stoccaggio di Co2 (Ccs) promosso da Eni e Snam in Emilia Romagna. Dalla […]
ReCommon La falsa soluzione di Ravenna è il nuovo rapporto di ReCommon sul primo progetto di cattura e stoccaggio di Co2 (Ccs) promosso da Eni e Snam in Emilia Romagna. Dalla […]
La falsa soluzione di Ravenna è il nuovo rapporto di ReCommon sul primo progetto di cattura e stoccaggio di Co2 (Ccs) promosso da Eni e Snam in Emilia Romagna.
Dalla prima proposta avanzata da Eni nel 2021 nel contesto del Pnrr, il progetto ha aggiunto una serie di infrastrutture in mare e su terra per trasportare la Co2 dall’Emilia Romagna e dal Veneto verso gli impianti Eni di Casalborsetti (Ra), dove viene raccolto e processato il gas estratto da Eni nei giacimenti offshore nell’Alto Adriatico.
Se per la prima fase l’obiettivo è di stoccare 25mila tonnellate l’anno, ben altre cifre si prevedono per la fase industriale del progetto (incentrata sul progetto Ccs Pianura Padana di Snam), in cui Eni e Snam promettono di trasportare e stoccare in maniera permanente fino a 4 milioni di tonnellate di Co2 l’anno entro il 2030 costruendo, sempre a Casalborsetti, una centrale di compressione dove verrà convogliata la Co2 raccolta inizialmente dalle zone industriali di Ferrara e di Ravenna, con una rete di circa 100 chilometri di gasdotti dedicati e quasi interamente da costruirsi, e successivamente anche dal polo industriale di Marghera.
Nel rapporto di ReCommon si evidenzia come la normativa che permette lo sviluppo della Ccs in Italia sancirebbe un palese conflitto di interessi che vede il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica avvalersi «(…) di società aventi comprovata esperienza nei settori della cattura, trasporto e stoccaggio di Co2 (…)» per la predisposizione di uno studio che strutturi la normativa, nonché la regolazione tecnica, economica e finanziaria della filiera Ccs in Italia.
Questo passaggio delinea un quadro in cui potrebbero essere le stesse Eni e Snam a «(…) definire le modalità per la remunerazione ed eventuali meccanismi di supporto per le diverse fasi della filiera della cattura trasporto utilizzo e stoccaggio della Co2».
Ossia, le aziende che promuovono la Ccs come centrale per il processo di decarbonizzazione sono quelle che scriverebbero una normativa che potrà riconoscere loro laute remunerazioni per «il servizio» offerto.
Remunerazioni che proverranno, con alta probabilità, dal bilancio dello Stato, come già accaduto nel Regno Unito.
Ma la normativa sarebbe stata ulteriormente generosa con Eni e Snam, beneficiari di eccezioni che prevedono che progetti sperimentali per lo stoccaggio fino a 100mila tonnellate di Co2 potessero partire senza una valutazione degli impatti ambientali e senza la presentazione di una garanzia fideiussoria a copertura dei costi in caso di fuoriuscite o irregolarità significative.
Non solo, la normativa prevede anche che tutti gli obblighi relativi al monitoraggio e alla restituzione di quote di emissione in caso di fuoriuscite siano trasferiti, dopo soli venti anni – o anche prima, se sono soddisfatte alcune condizioni – dalle aziende al ministero dello Sviluppo economico. Così non si considera che la cattura della CO2 nel sottosuolo rientra nel campo dei processi geologici, che avvengono su una scala di tempi enormemente più lunga di quella umana.
Questa sottovalutazione del rischio è ancora più allarmante se si considera che i progetti Ravenna Ccs e Ccs Pianura Padana insistono su un’area già provata dal fenomeno della subsidenza indotta da attività estrattive, di stoccaggio, di iniezioni di fluidi e che negli ultimi 500 giorni è stata colpita da tre alluvioni che hanno causato esondazioni di quei fiumi, come il Lamone, molto vicini alle future condutture di trasporto della Co2.
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