A quasi quarant’anni dalla sua scomparsa, Jean Genet continua a riservarci inaspettate sorprese. A tutt’oggi il suo profilo risulta difficilmente inquadrabile, in virtù di una vicenda biografica infarcita di aspetti anomali: abbandonato dalla madre in un orfanatrofio parigino, sarà affidato a una famiglia di contadini di Alligny-en-Morvan, dove avrà modo di appassionarsi, sua sponte, alla lettura. La sua esistenza si regge, fin dall’adolescenza, su tre irrinunciabili capisaldi: omosessualità, furto e tradimento. Perseguiti oltretutto con rigore maniacale, tesi al costante rovesciamento dei valori: in primis il tentativo di ricavare la santità dall’abiezione, equiparando crimine e dissipazione, finanche la delazione, alla stregua di virtù teologali. «La mia immaginazione è immersa nell’abiezione» riconobbe l’autore. In effetti, tale panegirico della depravazione conserva, a causa della sua persistenza, un alcunché di astratto e metafisico, a dispetto della totale compromissione con le forme più degradate e degradanti della materia affrontata.
D’altronde Genet inveiva contro tutto e tutti: perfino i suoi mentori Cocteau e Sartre erano accusati di danneggiarlo mentre riuscirono a evitargli, in barba alla sua sprovvedutezza, lunghi periodi di detenzione.

Sartre pubblicò nel 1952 Saint Genet comédien et martyr, volume inaugurale delle Œuvres complètes gallimardiane. Sembra che Genet tendesse a rimuovere le regole consolidate, facendo dell’universo detentivo da lui conosciuto, del Bagne tante volte idealizzato, una sorta di paradossale Eden. In questo microcosmo i valori risultano de facto capovolti: soprusi, sopraffazioni, finanche lo stupro, sono giustificati e giustificabili. Ammonisce Cocteau: «Ha acquisito tutti i diritti al delitto, all’ingratitudine, alla stupidità». Genet celebra nei suoi apologhi non solo il furto, la menzogna, il ricatto, ma arriva pericolosamente a motivare l’operato degli scherani nazisti, come nel romanzo Pompes funèbres (si veda l’Histoire de la littérature fasciste d’Homère à Jean Genet di Jean Turlais). Sebbene si senta parte integrante di un sistema criminale, Genet rimane sostanzialmente un ladruncolo di libri.

Con simili presupposti non poteva non rimanere affascinato dalla figura ambigua e proteiforme di Eliogabalo, considerato da Gibbon il più riprovevole degli imperatori romani, il cui regno durò dal 218 al 222 d.C. Fu presumibilmente colpito dalla rievocazione fatta da Artaud nel 1934 quando, su commissione dell’editore Robert Denoël, l’autore del Pèse-Nerfs lavorò alacremente a una ricostruzione storica che non si può non definire sommaria. Si tratta di una rivisitazione in cui le istanze liriche si sviluppano in forme scopertamente visionarie. È significativo d’altronde che, nel periodo in cui si convertì al tanto auspicato «cristianesimo delle catacombe», Artaud rinnegasse questo libro, concepito all’insegna della hybris blasfema di Sade e Lautréamont.

Non è di questo avviso Edmund White che, nella sua monumentale biografia genetiana, scrive: «Ma pare molto probabile che Genet si sia ispirato innanzitutto al Britannicus (1699) di Racine, anche perché nel 1941, al Théâtre des Bouffes Parisiens, Jean Marais aveva messo in scena proprio quel dramma (nel quale, inoltre, interpretava il ruolo di Nerone)». La pièce era stata composta nel ’42 con il proposito di affidare il ruolo di protagonista a Jean Marais ma l’attore, di cui Genet si era incapricciato, lesse il copione e declinò l’offerta. Genet allora si disinteressò al manoscritto, presumibilmente venduto da Paul Morihien, segretario di Cocteau ed editore improvvisato di Querelle de Brest (’47), Pompes funèbres (’48) e L’enfant criminel (’49), a una libreria antiquaria nel decennio 1950-’60. È stato recentemente ritrovato presso la Houghton Library dell’Università di Harvard, dopo che quest’istituzione lo rilevò nel 1983.

Lo pubblica adesso Gallimard con il titolo Héliogabale Drame en quatre acts (pp. 112, € 15,00), a cura di François Rouget che ricostruisce, nella sua nota introduttiva, l’intricata vicenda. Naturalmente l’Eliogabalo di Genet, come «l’anarchiste couronné» di Artaud, ha una verosimiglianza storica approssimativa, divenendo «un esempio di trasgressione, di lotta fratricida per il potere e di abiezione morale», come osserva il curatore. Alcune fonti canoniche sono disattese, a cominciare dalla morte dell’imperatore, che qui risulta sgozzato dal suo cocchiere, servitore e amante, anziché essere giustiziato dai pretoriani. Genet intende indagare il fenomeno della cospirazione, incarnato dalle figure respingenti della nonna Giulia Mesa e della zia Giulia Mamea, che non esitano a sacrificare Eliogabalo dopo averlo presentato ai pretoriani come figlio illegittimo di Caracalla al fine di farlo eleggere imperatore con il nome di Marco Aurelio Antonino all’età di quattordici anni. Ma il comportamento del giovane risultò fin da subito disarmante: attese al culto del dio siriano Elagabal, soprannominato deus Sol dai romani, venerato sotto forma di bolide astrale appositamente trasportato da Emesa, sua città natale in Siria, all’interno di un tempio edificato su una terrazza del Palatino. Si dedicò inoltre a coltivare travestimento e prostituzione, dispotismo e il più sfrenato esibizionismo, eleggendosi a «dio del teatro». Sottotraccia è presente l’identificazione tra il drammaturgo ed Eliogabalo, declinata all’insegna di eccessi e trasgressioni.

La pièce è ben congegnata e si configura come naturale appendice alle opere teatrali più conosciute: da Les Bonnes a Le Balcon, da Les Nègres a Les Paravents. Esemplare è il saggio L’étrange mot d’…, leggibile in italiano nell’antologia adelphiana Il funambolo, in cui l’autore sostiene che «il solo luogo (…) in cui si potrebbe costruire un teatro è il cimitero», creando un inestricabile connubio tra logos e thanatos. Quasi contestualmente la Gallimard licenzia Mademoiselle Les rêves interdits ou l’autre versant du rêve (pp. 168, € 7,50), con note introduttive di Yves Pagès e Patric Chiha, che accoglie un originale soggetto cinematografico cui Genet lavorò sin dall’inizio degli anni cinquanta. Il ruolo principale doveva essere interpretato da Ainouk Aimée, attrice recentemente scomparsa, allora moglie dell’amico Nico Papatakis, produttore di Un chant d’amour. Il film eponimo venne realizzato dal regista inglese Tony Richardson nel 1966 con Jeanne Moreau ed Ettore Manni quali protagonisti (la versione italiana era intitolata E il diavolo ha riso). Mademoiselle venne presentato a Cannes l’anno successivo, ma la promettente combinazione Richardson-Moreau-Genet non produsse gli effetti sperati. Sergio Colomba scrive: «se il film realizzato appartiene certamente più al regista che allo scrittore, sia lo scénario sia la pellicola sono comunque attraversati, penetrati e bruciati da una figura eminentemente provocatrice e genetiana: quella di Mademoiselle, l’incendiaria». Il testo, mancante sia dalle Œuvres complètes sia dai due tomi della «Pléiade», era stato tradotto da Gianni Poli nel volume miscellaneo L’immoralità leggendaria. Il teatro di Jean Genet, curato per Ubulibri nel 1990 dal succitato Colomba e da Albert Dichy. Anche qui non mancano implicazioni autobiografiche, a cominciare dal luogo di campagna in cui è ambientata la vicenda, non dissimile da Alligny-en-Morvan.

Molto opportuna è anche la pubblicazione di «Gli editori sono dei gran noiosi» Casi e vicende dei romanzi di Jean Genet tra Francia e Italia (pp. 168, € 22,00) della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori. Questa esaustiva ricognizione di Federico Sacco ripercorre le vicissitudini editoriali delle opere genetiane, originariamente vendute sous le manteau (si pensi al succitato Morihien e a Marc Barbezat, editore dell’Arbalète), in seguito passate a Gallimard che, tramite lo stesso autore, provvide a eliminare i passaggi più scabrosi. In Pompes funèbres furono sacrificate decine di pagine. Tale situazione si ripercosse sul versante italiano, con versioni lacunose (si veda quella del Diario del ladro, effettuata da Felice Dessì nella «Medusa» mondadoriana nel ’59, orientata a edulcorare il testo) o, giocoforza, mutilate, come nel caso dei 4 romanzi (’75), tradotti da Giorgio Caproni per il Saggiatore. Da ricordare, per gli stessi tipi, Tutto il teatro (’71), con versioni di Caproni e Rodolfo Wilcock, nonché le Opere narrative (2010) tradotte da Dario Gibelli e Massimo Fumagalli con criteri filologici più moderni e attendibili.