Prove di memoria artificiale
Intelligenza artificiale, foto Ikon/ Ap
Cultura

Prove di memoria artificiale

Tempi presenti Un’anticipazione dell’intervento al Festivaletteratura di Mantova, questa sera alle 21 in piazza Mantegna
Pubblicato 2 mesi faEdizione del 7 settembre 2024

La memoria è un elemento centrale dell’architettura del calcolatore disegnata da John von Neumann nel 1945, ispirato alla precedente «Macchina di Turing». Lo stesso Turing pensa fin dagli anni Cinquanta a una macchina per simulare l’intelligenza. Si immagina che l’impresa sia fattibile costruendo una memoria così grande da conservare tutte le informazioni utili, le istruzioni per interpretarle e trarne le conclusioni più interessanti. La macchina apprenderebbe dalla collezione di esperienze. Il passaggio dalla quantità di osservazioni alla qualità della memoria capace di selezionare i comportamenti dipende da una sostanziale indistinzione tra dati e istruzioni, contenuti nella macchina, in una codifica digitale. Le istruzioni possono essere modificate attraverso strati di istruzioni di livello superiore, come se fossero dati, simulando la maturazione delle persone attraverso l’educazione.

Nonostante le aspettative sulle capacità cognitive delle macchine intelligenti, c’è una radicale e indiscutibile differenza tra la memoria umana e quella digitale. Gli strati di memorizzazione elettronica costituiscono un database, un repository, un magazzino di raccolta, nel quale i dati sono sempre identici a sé stessi e possono essere richiamati a piacere, purché se ne conosca il sistema di indirizzamento. La memoria umana ha una struttura dinamica e rielaborativa, sulla quale sono d’accordo psichiatri, psicanalisti, scienziati cognitivi e neuroscienziati. La memoria è sempre nuova e ricostruttiva. Il ricordo dipende dall’immaginazione, associa contenuti secondo collegamenti stravaganti e imprevedibili, attivati in modo creativo, causale, emotivo o emergenziale, come sanno bene coloro che attraversano un lutto.

UN’ALTRA CARATTERISTICA della memoria è la sua fragilità e il bisogno di forme di esternalizzazione per potersene servire in modo stabile. I supporti tecnici, cioè sociali e collettivi, che servono per questa esternalizzazione sono parte integrante della nostra soggettività, a cominciare dal linguaggio, i disegni, il testo scritto, la stampa, e tutte le altre forme di registrazione della performance.

La nostra memoria è intessuta di tali depositi sedimentari esterni, attivatori e generatori di nuovi pensieri e di una riorganizzazione sociale e psichica dipendente dal loro uso. Si tratta di dispositivi spesso inorganici che contribuiscono a rideterminare la nostra interiorità e il modo in cui entriamo in relazione con l’esterno e con gli altri.

Secondo Bernard Stiegler, un filosofo francese scomparso di recente, quei supporti esterni sono parte integrante della dinamica della soggettività del Sapiens, contribuiscono a una sua costante metamorfosi antropologica e istituiscono politicamente una linea di separazione mobile tra ciò che è esterno e ciò che interno alla nostra identificazione.
Queste mutazioni sociali e psichiche hanno una portata politica: a seconda del supporto di cui ci serviamo per esternalizzare la nostra memoria perdiamo alcune capacità, che deleghiamo all’esterno, e dovremmo avere poi lo spazio per reinternalizzare altre forme di sapere. Per esempio, con la scrittura abbiamo perso la capacità memorizzare tante informazioni, ma abbiamo ottenuto che persone lontane nello spazio e nel tempo entrassero in contatto con i nostri testi. Se non riusciamo a governare il processo antropologico, dinamico e negoziale per la crescita dei nostri saperi, potremmo essere completamente determinati dai nostri supporti, perdendo consapevolezza, spazi interiori e libertà. Più automatizziamo all’esterno funzioni, più dipendiamo dai sostrati e, soprattutto, da chi li governa e ne detiene il sistema di significazione.

NELLE VARIE FORME di memorizzazione esternalizzata non ci eravamo mai spinti a esternalizzare la capacità di interpretare il senso delle informazioni raccolte. Galileo continuava a tracciare a mano i disegni delle osservazioni, aiutato dal telescopio, e poi scriveva i suoi testi scientifici dati alle stampe. Per comprenderli era necessario che le menti degli altri scienziati si immergessero nella loro lettura. La stampa ampliava la diffusione contribuendo all’intervento di più menti, ma non delegava l’interpretazione a un apparato tecnico.
Dopo aver inventato le tecnologie della registrazione ci siamo trovati in una situazione inedita: poter ripetere l’identico, per esempio, riascoltare tante volte lo stesso pezzo musicale, cosa impossibile quando avevamo solo esecuzioni e i loro ricordi. Ogni nuova esecuzione non sarebbe mai stata identica alla precedente, e i loro ricordi sarebbero stati sempre delle rielaborazioni.

Il supporto digitale amplifica il potenziale di registrazione e costruisce una progressiva datificazione delle nostre memorie, attività, tracce volontarie e involontarie, trasferite in immensi repository proprietari di poche aziende della Silicon Valley, mettendoci di fronte a una sfida senza precedenti. Il progetto dell’intelligenza artificiale, reso possibile, tra l’altro, dalla disponibilità di queste enormi raccolte di dati, è organizzarle in forme prescrittive e prestabilite, attraverso metodi di interpretazione in gran parte segreti e con l’obiettivo di proiettarne le aspettative sul futuro. Dal momento che i costi di raccolta e manipolazione delle informazioni sono ingenti, il ritorno di questi investimenti di automazione di memoria e «intelligenza» consiste in una promessa di delega governamentale delle capacità di riconoscere e classificare oggetti e persone, prendere conseguenti decisioni e produrre contenuti sintetici a immagine di quelli immagazzinati.

L’intelligenza artificiale, basata sull’apprendimento e sulla appropriazione industriale dei nostri dati, conduce la mediazione inorganica a un altro livello. Suggerisce che sia impossibile usare la mente umana per interpretare quelle informazioni e propone di esternalizzare non solo le semplici memorie, ma l’organizzazione stessa del passato.

L’APPRENDIMENTO automatico, diventato così popolare nell’ultimo decennio, ha l’ambizione di offrire un intervento algoritmico di interpretazione dei dati passati proiettati sul futuro, usando strategie ermeneutiche induttive e probabilistiche. Questa organizzazione cognitiva fa ipotesi molto forti sul significato dei dati conservati: suggerisce che il passato si ripeterà, ovvero assume il mondo stabile. Questa aspettativa è discutibile dal punto di vista epistemico e politicamente molto impegnativa. Non viviamo, infatti, in un mondo ideale, nel quale tutto è perfetto e senza attrito. La nostra storia è carica di ingiustizie e disparità. Se venissero naturalizzate nel giudizio e nella previsione del futuro, avrebbero l’effetto di reificare le differenze – frutto delle violenze del passato – che peserebbero così due volte sulle soggettività intersezionalmente fragili perché non conformi a quegli stereotipi, poi memorizzati dal sistema e istituiti come regolarità normative di un mondo immaginario immutabile.

Il sistema socio-tecnico esternalizza la nostra memoria collettiva, se ne appropria e ne astrae regolarità per normare il presente e informare il futuro. Per questo è urgente e necessario esercitare il peso della nostra capacità critica sul progetto di comprensione artificiale. Tutte le interpretazioni sono situate e orientate. Quelle automatiche non fanno eccezione, istituiscono nuove relazioni tra organico e inorganico, che rideterminano i rapporti di potere/sapere. Per questo dobbiamo scegliere politicamente come e in che senso vogliamo abitarle. Una volta stabilizzato, il processo di esternalizzazione avrà conseguenze sulla struttura antropologica, psichica e sociale del Sapiens. Dobbiamo, quindi, deliberare democraticamente su quali siano le procedure che vogliamo delegare al progetto di memorizzazione industrializzata creato dalla Silicon Valley.

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