6 morti e una trentina di feriti. È il bilancio della mattinata di scontri ieri tra i supporter sciiti di Amal e Hezbollah e quelli cristiani delle Forze Libanesi. La protesta annunciata dai primi due contro il giudice Bitar è degenerata in uno scontro a fuoco che è durato ore e che ha seminato il panico.

BAMBINI BLOCCATI nelle scuole, civili nelle abitazioni nelle aree nei pressi di Tayyouneh, confine tra il quartiere sciita di Dahieh e quello cristiano di ‘Ain Remmaneh, lo stesso in cui il 13 aprile del 1975 era scoppiata la guerra civile durata 25 anni, quando un’auto in corsa sparò e uccise 4 uomini, tra cui due del partito di ispirazione fascista cristiano maronita del Kataeb, la falange, che dopo poche ore in risposta compì il «massacro del bus», uccidendo 30 palestinesi di passaggio nel quartiere.

Gli scenari di guerriglia, gli spari dai tetti, dai palazzi, nelle strade riportano la mente dei libanesi a quegli anni.

HEZBOLLAH E AMAL avevano reso nota la protesta giorni fa e netta era stata la posizione di Nasrallah, leader del Partito di Dio, che aveva in più occasioni accusato Tareq Bitar di aver politicizzato il processo sull’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto 2020, che ha ucciso oltre persone, causato 7mila feriti e 300mila sfollati e distrutto interi quartieri di Beirut.

Sono all’incirca le 10. Centinaia di sostenitori dei due partiti protestano davanti alla sede del tribunale, nel quartiere di Adlieh. Molti dei manifestanti sono armati, come consuetudine.

Ci sono degli spari nella vicinissima Tayyouneh ed è subito guerriglia che durerà ore. Un comunicato congiunto di Amal e Hezbollah accusa «gruppi delle Forze Libanesi di essersi appostati sui tetti e di aver aperto il fuoco con l’intento di uccidere».

Il leader del partito cristiano in causa Samir Geagea prende le distanze da ciò che è accaduto, senza però rispondere alle accuse e dichiarando che è causa della «larga e incontrollata diffusione di armi» nel paese se ci sono stati scontri. Nel primissimo pomeriggio l’esercito riprende il controllo dell’area.

DIFFICILE CREDERE che l’episodio non avrà conseguenze. Nel pomeriggio il neo premier Mikati proclama per oggi una giornata di lutto nazionale e la chiusura di tutte le istituzioni. L’esercito arresta in serata nove persone.

Nel febbraio scorso al giudice Fadi Sawwan che si occupava del processo venne sottratto l’incarico perché ritenuto troppo coinvolto emotivamente in quanto la deflagrazione gli aveva distrutto casa. Sawwan era stata la terza scelta, preceduto dalla bocciatura da parte del csm di Younes, proposto dall’allora ministra cristiano-maronita della giustizia Najem, e da un rifiuto immotivato dello stesso Bitar. Ennesima bocciatura per Younes, Bitar accetta l’incarico a febbraio.

IL GIUDICE, SOSPESO in seguito al «legittimo sospetto» di faziosità e cattiva condotta avanzato dall’ex ministro dell’interno Machnouk (Blocco Futuro, Hariri) e dell’ex ministro dei lavori pubblici Fenianos (Marada) – accusa simile a quella che gli ex ministri Khalil (Amal) e Zeiter (Amal) avevano lanciato nei confronti di Sawwan – aveva ripreso la sua attività fino a martedì, quando era stato nuovamente sospeso per aver ordinato l’arresto proprio di Khalil, per il suo rifiuto di presentarsi in tribunale. Khalil e Zeiter (anch’egli convocato) avevano presentato ricorso, rigettato però dalla Corte di cassazione ieri, dando finalmente a Bitar la possibilità di rimettersi a lavorare.

Con la ripresa delle attività parlamentari in seguito alla formazione del governo Mikati il 10 settembre scorso, Machnouk, Khalil e Zeiter potranno godere dell’immunità solo fino al 19 ottobre.

È IL SECONDO MANDATO di arresto assieme a quello spiccato per Fenanios. Anche l’ex-premier Diab è stato invitato a comparire davanti alla corte per rispondere come molti altri di «omicidio colposo e negligenza». I familiari delle vittime qualche settimana fa hanno dimostrato contro la rimozione di Bitar, che ha dato loro l’impressione di voler colpire quell’establishment contro il quale il popolo si era ribellato il 17 ottobre del 2019 riversandosi in massa in strada.

Questo il clima nel quale si è consumata l’escalation di ieri, che aumenta il livello di scontro e di tensione in un paese logorato da una crisi economica senza precedenti che vede la classe media in larga parte impoverita e una forbice sociale che si allarga sempre di più.

SI SCRIVE CRISI e si legge speculazione da parte dei pochi che hanno il monopolio del carburante – quindi dell’elettricità – che manca e non è più sussidiato dallo stato da mesi, dell’edilizia, dei medicinali o di altri prodotti essenziali. Crisi nella crisi come bambole russe, in un paese che ciclicamente fa i conti con gli spettri del passato, mai come ora così vicini.