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Prove di golpe a Caracas

L’avvento di Trump proponeva la prospettiva isolazionista degli Stati uniti. Ora sappiamo invece che il nuovo inquilino della Casa bianca persegue una netta quanto devastante ingerenza nelle crisi internazionali. In […]

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 29 giugno 2017

L’avvento di Trump proponeva la prospettiva isolazionista degli Stati uniti. Ora sappiamo invece che il nuovo inquilino della Casa bianca persegue una netta quanto devastante ingerenza nelle crisi internazionali. In Europa appoggia la Brexit e rilancia i costi della Nato, in Medio Oriente si ricoinvolge nelle guerre dalla Siria, all’Arabia saudita a Israele/Palestina. Insomma, l’America first. Un disegno non c’è, ma un caos ben organizzato e pericoloso.

A questo abbiamo pensato ieri notte di fronte alle notizie drammatiche che arrivavano dal Venezuela. Un elicottero della Polizia scientifica venezuelana ha sorvolato il centro di Caracas lanciando quattro granate sulla sede del Tribunale supremo di giustizia, colpevole di rispettare il governo legittimamente in carica ancora per un anno e democraticamente eletto di Nicolàs Maduro. Maduro ha apertamente denunciato l’«attacco terroristico», pronto a difendere la rivoluzione «anche con le armi». Nelle ultime ore hanno provato a raccontare l’episodio come il gesto esibizionista di un «rambo» attore, come una «recita». Magari. Perché l’attacco è stato vero, anche se senza vittime.

Non siamo più dunque alle sole manifestazioni contrapposte. Quelle orchestrata dalla destra e sostenute dai media mainstream mondiali, a fronte di una pesante crisi sociale, con inflazione alle stelle e mancanza dei beni alimentari.

E le manifestazioni – ignorate – ma altrettanto forti, organizzate e combattive che scendono in piazza per difendere il governo – più di 70 le vittime finora, ma sia dell’opposizione che del fronte pro-Maduro. La novità è che c’è stata una azione armata contro una delle istituzioni più rappresentative del governo bolivariano, rivendicata a viso scoperto, tra militari col passamontagna, da Oscar Rodriguez, agente della Brigata azioni speciali della polizia – si è definito «dei guerrieri di dio» – indicato dalle autorità come «in contatto con Miguel Rodriguez Torres, ex ministro degli interni e della giustizia di Hugo Chavez» e ora «in contatto con la Cia». Maduro ha mobilitato le forze militari per proteggere la democrazia venezuelana. Carri armati presidiano Miraflores. Il rischio è che si inneschi il perverso circolo della violenza armata, anticipo di guerra civile. Anche se le forze armate non sembrano accettare il terreno dello scontro su cui la destra insiste.

La crisi venezuelana, invece che incancrenirsi, poteva certo avere un diverso percorso. Traguardando anche le diverse responsabilità. A cominciare dal ruolo del governo e del presidente Maduro che hanno ereditato un Paese dove i rapporti di proprietà sono stati rimessi in discussione, con in atto un processo di transizione rivoluzionaria, punto di riferimento nel mondo. Senza affermare – fatto irrimediabile di fronte al crollo dei prezzi del greggio – un’alternativa economica alla monocultura del petrolio; e senza consolidare le istituzioni democratiche dal basso che pure rappresentano il modello costituzionale della rivoluzione bolivariana. Ne è derivata una sorta di auto-isolamento, proprio mentre arrivavano al pettine i nodi irrisolti dell’equilibrio dei poteri; e mentre precipitavano, grazie a golpe istituzionali, in America latina le svolte politiche del Brasile e dell’Argentina che avevano rappresentato il «cambio» dell’intero continente. Poi è arrivato Trump.

Ma dall’altra parte c’è una opposizione di estrema destra, oligarchica e populista, impresentabile che ormai chiama apertamente alla rivolta popolare e militare contro una rivoluzione che Hugo Chavez ha iniziato democraticamente diciotto anni fa. Una opposizione sprezzante che, dopo la conquista del parlamento, non sente ragioni, nemmeno se le propone papa Francesco costretto ad ammettere ora la proprio impotenza. Obiettivo dichiarato: far fallire le elezioni del prossimo 30 luglio per una Assemblea costituente che potrebbe costituire il ritorno della politica al centro dello scontro che, altrimenti, precipiterà.

Allora, che c’entra Trump? È il presidente degli Stati uniti che azzera ogni strategia climatica, che torna a centrare lo sviluppo economico Usa su fonti economiche deperibili e non più sostenibili come carbone e petrolio, facendo del controllo di queste materie prime l’asse della sua politica interna. E che appena arrivato alla Casa bianca ha promesso: «Caccerò Maduro dalla presidenza del Venezuela». Tra l’altro, ha nominato l’ex ad di ExxonMobil Rex Tillerson Segretario di Stato. Senza dimenticare che la degenerazione della crisi a Caracas potrebbe coinvolgere la questione del fabbisogno energetico «mancante» non solo in America Latina, ma negli Stati Uniti e nel mondo.

Solo poche settimane fa un editoriale del New York Times spiegava meglio di ogni altro i «nuovi» intenti americani verso il Venezuela, grande Paese produttore ed esportatore di petrolio e con le più grandi riserve petrolifere del mondo. Sintetizzando, l’autorevole giornale Usa s’interrogava così: «Ma com’è possibile che il più grande Paese al mondo per riserve petrolifere abbia istuzioni alla Soviet?». Già, com’è possibile?! Al via la prova dei golpe.

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