Sull’iter processuale per il riconoscimento della protezione umanitaria a Mohamed Dihani, attivista saharawi vittima di torture e persecuzioni per motivi politici da parte delle autorità marocchine, sono circolate diverse inesattezze, riprese ieri anche su queste pagine («L’Italia nega la protezione a Dihani. “Il Marocco è un paese sicuro”»). Per ristabilire una corretta informazione e avere maggiori delucidazioni su tutta la vicenda, il manifesto ha intervistato i suoi avvocati, Cleo Maria Feoli e Andrea Dini Modigliani.

Dopo le violenze subite fino al 2015 e un lungo periodo in Tunisia, Dihani ha ottenuto un visto di ingresso in Italia solo nel 2022, per quale motivo?

Dopo la sua scarcerazione ed in seguito alle pressioni della comunità internazionale e di Amnesty International, Dihani ha trovato rifugio in Tunisia nel 2019, dove però non ha ottenuto alcun titolo di soggiorno e l’accesso alle cure di cui necessitava, con il concreto rischio di essere rimpatriato in Marocco. Solo nel 2022 il Tribunale di Roma, con due provvedimenti, ha ordinato al ministero degli Affari esteri il rilascio di un visto di ingresso sul territorio nazionale, al fine di presentare domanda di protezione internazionale. In precedenza, nel 2018, Dihani non era riuscito a ottenere il visto, che gli era stato negato dal Consolato italiano a Casablanca per la sua segnalazione in Banca Dati SIS come terrorista.

Che cos’è la banca Sis II e perché l’attivista saharawi è stato segnalato come terrorista?

Il sistema d’informazione Schengen (SIS) condivide le segnalazioni legate a criminalità organizzata e terrorismo per la sicurezza e la gestione delle frontiere in Europa. Il nominativo di Mohamed è legato a una «segnalazione ufficiale» da parte di Rabat, con dichiarazioni e informazioni false estorte sotto tortura, come riconosciuto anche da un’indagine del Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle detenzioni arbitrarie. Attraverso il Tribunale di Roma, Dihani ha potuto poi accedere agli atti e ottenerne successivamente la cancellazione.

Con quali motivazioni nel maggio 2023 la Commissione Territoriale, pur avendo accertato le torture subite dall’attivista, ha rigettato la sua richiesta?

La Commissione territoriale di Roma ha integralmente rigettato la richiesta di protezione internazionale, motivando la decisione sulla base del fatto che non c’erano motivi gravi per ritenere che il Marocco non costituisca un paese sicuro. Nella sentenza non c’è nessun riferimento alla vasta documentazione rilasciata, sulle torture subite e sul rischio di persecuzione per una persona che dovrebbe essere a tutti gli effetti considerata «vulnerabile» e ottenere lo status di rifugiato. Un’ulteriore aggravante è stata la «pericolosità» di Dihani, perché all’epoca non era ancora effettiva la sentenza del Tribunale sulla cancellazione dalla Banca Sis.

Siete fiduciosi dopo il ricorso presentato e l’udienza, la seconda, del 3 luglio davanti al Tribunale ordinario civile di Roma?

Pensiamo che quella di giovedì possa essere l’ultima udienza prima del verdetto previsto per la fine dell’estate. Dihani ha avuto modo di precisare alcuni punti rilevanti della sua richiesta, in un clima che consideriamo positivo, con un esito che speriamo sia quello di ottenimento dello status di rifugiato. Otterrà quindi ciò che legittimamente rivendica da tempo: la protezione internazionale da parte dell’Italia.

Perché il caso di Dihani risulta emblematico riguardo al fatto di considerare paesi come il Marocco sicuri, nonostante la violazione dei diritti umani?

Il Marocco è un paese autoritario, con carceri segrete e non dovrebbe essere considerato sicuro. Il caso di Mohamed Dihani evidenzia i limiti relativi alle procedure di riconoscimento dello status di rifugiati da parte delle Commissioni territoriali, cosa che si aggraverà maggiormente con l’esternalizzazione delle frontiere da parte dell’Europa.