Presidenziali Usa, il momento di Fighting Joe
Elettorale americana La settimana passata, quasi cinque mesi esatti prima dell’elezione presidenziale del prossimo 5 novembre, ha decisamente avuto il sapore della prima settimana di campagna elettorale piena. Si è aperta, infatti, […]
Elettorale americana La settimana passata, quasi cinque mesi esatti prima dell’elezione presidenziale del prossimo 5 novembre, ha decisamente avuto il sapore della prima settimana di campagna elettorale piena. Si è aperta, infatti, […]
La settimana passata, quasi cinque mesi esatti prima dell’elezione presidenziale del prossimo 5 novembre, ha decisamente avuto il sapore della prima settimana di campagna elettorale piena.
Si è aperta, infatti, col Super Tuesday, che ha reso inevitabile un nuovo scontro fra Biden e Trump aborrito dai più. A stretto giro è seguito il discorso del presidente sullo stato dell’unione che è stato sostanzialmente un anticipo di quello sul’investitura ufficiale che arriverà nella Convention di Chicago del 19-22 agosto.
Per gli “speech-writer” (coordinati nel ritiro di Camp David dal vice-capo di gabinetto Bruce Reed), l’idea era di prendere al balzo il “momentum”, l’inerzia raccolta alle urne un paio di giorni prima e tradurlo nel primo grande comizio elettorale. Fra i democratici c’è da tempo la sensazione che il presidente debba rompere gli indugi per imbastire l’attacco frontale a un avversario che imperversa per ogni dove (comizi, conferenze stampa, social e talk) con la capacità di trasformare anche le proprie convocazioni in tribunale in eventi di comunicazione politica.
Soprattutto Trump ha avuto campo libero nell’ingigantire la narrazione sulla “incompatibilità senile” di Biden, tallone d’Achille che nelle ultime settimane ha seminato crescente allarme e scompiglio nelle fila Dem.
Primo obiettivo del discorso è stato dunque di controbattere la percezione di un candidato rimbambito prono ad inciampare e impappinarsi, e da questo punto di vista è stato un chiaro successo. Biden è parso lucido e incisivo, un veterano a suo agio nello scontro diretto e perfino nel battibecco estemporaneo con gli avversari.
Gli interventi pubblici di Biden sono spesso causa di sudorazione fredda per i collaboratori in attesa di un inevitabile gaffe, la perdita del filo o peggio. Dan Cluchey, autore dei discorsi presidenziali fino al 2022, ha descritto all’agenzia Ap l’ascolto dei discorsi del presidente come “un balletto con diversi movimenti, che vanno dal panico a momenti in cui ti dici ‘aspetta un attimo sta andando bene,’ fino ad ‘accidenti è proprio bravo’.”
Con grande sollievo dei consiglieri lo stato dell’unione è stato soprattutto dell’ultimo tipo. Biden è parso concentrato e energetico e certo lontano, a parte qualche parola equivocata (il presidente è stato balbuziente in gioventù), dall’immagine di vecchietto in stato confusionale rappresentato negli spot elettorali avversari. “Io guardo al futuro con ottimismo,” ha detto con studiata ironia. “Alcuni miei coetanei, diversamente, hanno in mente risentimento, rivincita e vendetta.”
In apertura Biden ha citato Roosevelt e Lincoln, ricordando l’avvertimento del primo sulla democrazia minacciata dai totalitarismi nel 1941, e dichiarando l’attuale pericolo pari solo a quello della guerra civile combattuta dal secondo. Mescolando le metafore, ha poi ricordato l’invito di Reagan a Gorbaciov ad abbattere il muro di Berlino, contrastandolo con le recenti esternazioni di Trump sulla carta bianca a Putin sugli alleati Nato “inadempienti.”
È stata la prima di 13 stoccate all’avversario (citato unicamente come “il mio predecessore”) su cui Biden ha riversato soprattutto le accuse di insurrezione per l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Gli attacchi (ma forse ancor più l’energia mostrata dall’oratore) hanno entusiasmato i parlamentari Dem spesso scattati in piedi a invocare un nuovo mandato: “Four more years!”.
L’effetto è stato opposto sui repubblicani. Soprattutto il nutrito drappello Maga, come l’anno scorso, ha ignorato le regole del decoro (e il divieto parlamentare sui simboli politici in aula) presentandosi con spille e cappellini pro-Trump, e interrotto spesso con fischi e schiamazzi. I momenti estranei al protocollo sono paradossalmente stati i più efficaci per Biden, a suo agio nel battibecco ironico con cui ha pungolato i più facinorosi, dando prova di un’attitudine sorprendentemente ancora ben presente alla schermaglia oratoria.
Certo, il formato del discorso a camere riunite è asimmetrico per definizione, a favore del presidente, relegando l’opposizione al ruolo di pubblico passivo, comprimario di una rappresentazione con un solo protagonista.
Questa volta è stata evidente la delusione GOP per una performance che ha smentito l’accusa di incompetenza senile e, simmetricamnete, il conforto Dem per un candidato improvvisamente parso plausibile paladino.
Per un’ora e mezzo, Biden ha sciorinato l’elenco dei propri successi, intercalati all’obbrobrio Maga.
Dal “coltello alla gola della democrazia” tenuto dai nazional-populisti,alle crociate maccartiste contro i libri di testo e soprattutto l’attacco integralista ai diritti delle donne (specialmente l’abrogazione dell’aborto), Biden ha messo sotto processo l’involuzione guidata dai “red states” repubblicani e dai togati reazionari nella Corte suprema – l’impianto portante, insomma, dell’opposizione a Trump.
In uno dei passaggi più efficaci, Biden si è rivolto direttamente ai giudici della Corte seduti in prima fila con le toghe nere e gli ha detto: “Con tutto il rispetto, giudici, le donne non sono senza potere politico ed elettorale… e state per scoprire esattamente quanto.”
Cantando le lodi della “economia più forte del mondo” Biden ha tratteggiato la propria versione di “new deal” su welfare, investimenti, infrastruttura e sostegno ai sindacati per rafforzare la middle class.
Un progetto neo-rooseveltiano che a tratti ha compreso istanze progressiste come le restrizioni al porto d’armi e attacchi alla dilagante plutocrazia (lotta all’evasione fiscale delle corporation e miliardari da tassare a favore di interventi sociali).
Biden non ha fatto sconti al trumpismo come promozione di oligarchia (il “predecessore” aveva elargito a Wall Street un megasconto fiscale di 2mila miliardi di dollari).
L’efficacia dell’attacco si è misurata nelle accuse repubblicane di “divisionismo ed eccessiva aggressività,” onestamente ipocrite, dato il pulpito da cui sono provenute.
Sulla sostanza il GOP non ha molto da contrapporre, e si è visto dal “commento” al discorso postato su Truth Social dallo stesso Trump, una serie di spezzoni del discorso con i volti di Biden e Kamala Harris trasformati in ridicoli cartoon dagli occhi strabuzzanti e il naso da Pinocchio, degni di un alunno delle medie.
Non ha aiutato neanche il “rebuttal” – il tradizionale contraddittorio dell’opposizione trasmesso subito dopo l’evento. Quest’anno è stato affidato alla senatrice repubblicana dell’Alabama Katie Britt posizionata nella scenografia domestica di una cucina a significare il focolare degli Americani medi, vittime inermi dell’inferno scatenato da Biden col suo socialismo sovversivo dell’originale integrità di un’America pia e giusta.
Ma l’intento iperbolico si è rivelato un boomerang sia per forma (la performance eccessivamente melodrammatica della senatrice è subito diventata meme dei programmi satirici) e contenuti (una parabola su una migrante vittima della violenza dei cartelli per colpa delle leggi migratorie di Biden si è rivelata apocrifa e vecchia di 16 anni).
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Il crepuscolo Usa: o Trump o un nuovo assalto alla democraziaInsomma, la settimana non avrebbe potuto essere stata scritta meglio per Biden nemmeno dai suoi stessi writer. Eppure, non sono mancati gli asterischi.
Innanzitutto, quello sul contesto generale di queste elezioni post-politiche in cui le “culture wars” con tutto il loro carico emozionale saranno destinate a dominare ancora una volta sui programmi politici. Una contesa dove un cartoon col naso finto può spostare più voti di un discorso dettagliato su policy e dove la paura delle orde straniere eclissa facilmente i punti aggiunti al Pil.
Per Biden, esponente e fautore di una politica ormai in parte anacronistica, questo rischia di rimanere un ostacolo insormontabile nell’era di un’opinione pubblica più sensibile ai meme dei social media che alla sostanza.
In un comizio in Georgia, all’indomani del discorso, la critica più incisiva offerta da Trump è stata una rozza imitazione della balbuzie del presidente, accolta con un’ovazione dei suoi sostenitori per i quali non esiste statistica economica o dato politico, anche il più favorevole, che potrebbe convincerli dell’infallibilità del proprio idolo-demiurgo.
Non è chiaro se è per questo che nel panorama iper-polarizzato rimangano sacche di elettori indecisi da convertire dall’una o dall’altra parte.
Significa che gran parte della partita si giocherà sulla partecipazione, o meglio su di un astensionismo destinato in tutta probabilità a tornare fattore potenzialmente decisivo – e una minaccia più grave per Biden che non per Trump, con la sua base maggiormente radicalizzata e motivata.
I fedeli Maga ben rappresentano gli elettorati orfani di ideologia o articolabile fede politica, attori nella “disinformazione partecipativa” che caratterizza ormai tanta parte del processo “politico”. È l’humus ideale, ad esempio, per imbastire una campagna di panico sovranista sull’immigrazione che i sondaggi dicono essere altamente efficace anche quest’anno.
I confini – trasgrediti, rinforzati e imposti – sono destinati a dominare questa cruciale elezione americana.
Su Biden incombe infatti non solo la frontiera con il Messico ma il recinto israeliano attorno a Gaza e lo sterminio che vi è attualmente perpetrato in diretta.
Fra gli annunci dello state of the union, il più sorprendente è stato quello del progetto americano per portare aiuti alla martoriata Striscia. Un molo da costruire sul litorale palestinese che permetterà agli Usa di intraprendere la singolare operazione con cui consegnerà aiuti umanitari via mare, mentre via terra e aria continuano a piovere sulla popolazione munizioni made in Usa fornite all’Idf di Netanyanhu.
Una fotografia icastica della paradossale situazione geopolitica e in particolare della vulnerabilità di Biden su una questione nella quale è riuscito ad esprimere solo un cerchiobottismo che rischia di no soddisfare nessuno – né la tradizionale “constituency” ebraica del suo partito, né quella di un emergente opposizione (compresa quella di molti ebrei) che, per la prima volta negli Stati uniti , ha reso minoritario il sostegno espresso per Israele.
La redazione consiglia:
Gaza, per un popolo alla fame il porto di nebbie di BidenCon alla guida del paese un sodale stretto di Trump come Benjamin Netanyahu, Israele si affianca oggi alla Russia come soggetto fortemente interessato a una sconfitta di Biden. Sempre la scorsa settimana, una delegazione Maga si è recata in visita ad esponenti del governo del Likud fra cui il ministro per gli “affari strategici”, Ron Dermer e il presidente della Knesset, Amir Ohana.
Certo, già nel 2015, lo stesso Netanyahu era stato invitato dai repubblicani a parlare al Congresso come sfregio ad Obama ma i contatti al vertice fra l’estrema destra israeliana e la squadra di Trump fanno balenare un nuovo livello di collaborazione fra estremisti autoritari.
Né sono stati gli unici incontri di questo tenore. Venerdì lo stesso Trump ha ricevuto Viktor Orban a Mar-A-Lago per un mini-summit sovranista, ricevendo il premier ungherese, da tempo l’Europeo preferito della destra Maga, come “grande leader”.
Qualche giorno prima era passato alla corte di Trump Elon Musk, ormai ospite fisso di governi neo-autoritari, da Roma a Gerusalemme. La presenza in Florida del magnate tech, che sulla piattaforma X opera sostanzialmente da ministro della propaganda trumpista, ha rafforzato l’impressione di una emergente coalizione di autocrati populisti e plutocrati per saldare integralismi e autoritarismi nel mondo e che proprio da una vittoria in America il prossimo autunno potrebbero ricevere un decisivo impulso.
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