L’ultimo atto del Super Tuesday è stato il ritiro di Nikki Haley. L’ultima voce repubblicana ad opporsi apertamente alla nomination di Donald Trump come candidato del partito, ha ammesso ieri che non vi sono i presupposti, almeno non quest’anno, per arginare l’ondata populista cavalcata dall’ex presidente. L’uscita di scena dell’ex governatrice del South Carolina rende ufficiale lo scenario a tutti noto sin dall’inizio, la riedizione dello scontro fra Trump e Biden, una replica che una maggioranza dell’elettorato dichiara di non volere. Le rispettive candidature devono solo essere ufficializzate con l’assegnazione dei delegati necessari nelle primarie nei rimanenti stati. Il processo si concluderà a giugno ma sarà in realtà un rito svuotato, destinato a sancire l’evidenza di una elezione profondante anomala.

IL CANDIDATO repubblicano, infatti, non solo non ha mai rinnegato le azioni con cui tentò, quattro anni fa, di sovvertire violentemente il processo democratico, ma insiste nel proclamarsi «vincitore derubato» delle ultime elezioni. Al proprio repertorio di provocazioni ha recentemente aggiunto l’idea di «totale immunità presidenziale» che rasenta l’infallibilità. Nei comizi promette tremenda vendetta contro i propri nemici, la chiusura ermetica del confine e le più grandi deportazioni di stranieri nella storia del paese. A scanso di equivoci la fondazione reazionaria che lo sostiene, la Heritage Foundation, ha pubblicato il programma dettagliato (Project 2025) con cui una seconda amministrazione Trump blinderebbe il governo ed ogni istituzione nazionale, a partire dalle forze armate, per consolidare il potere e reprimere il dissenso, in caso di vittoria.
Se questo scenario prospetta un crepuscolo della maggiore democrazia occidentale, non è più rassicurante quello di un’ipotetica sconfitta di Trump. Come avvenne nell’estate del 2020, il candidato Maga ha preventivamente chiarito che una mancata vittoria confermerebbe un complotto illegale ordito a suo danno e annunciato che un tale risultato non sarebbe «accettabile». Lo spettro del 6 gennaio aleggia insomma su queste elezioni dal cui epilogo non è possibile escludere l’ipotesi di una crisi costituzionale (potenzialmente aggiudicata dalla Corte suprema) né quella di disordini civili – o peggio.

È significativo, intanto, il dissenso espresso sia dagli elettori democratici «uncommitted» che dai repubblicani che hanno comunque votato per la “causa persa” di Nikki Haley. Non è forse sorprendente che una larga fascia di opinione pubblica preferisca la rimozione, immaginando che “qualcosa” debba sicuramente intervenire prima di novembre per offrire un’alternativa all’opzione attuale. Fra le possibili sorprese ipotizzate, fattori legati all’età dei candidati e l’incognita dei quattro processi a carico di Trump (sempre che riescano ad essere istruiti per tempo).

TUTTO È POSSIBILE, certo, ma per il momento la realtà è quella del nuovo confronto Trump-Biden e, una volta conclusa la pantomima delle primarie, entreranno in gioco le dinamiche legate agli equilibri ed alchimie identitarie di un elettorato complesso ed eterogeneo, enormi interessi economici ed i volubili flussi di immagine.
Per Biden si tratterà di ricreare la fragile coalizione di progressisti, giovani, donne e minoranze etniche alla base di ogni vittoria democratica dagli anni sessanta in qua. Nei prossimi mesi calcherà dunque sul (giustificato) allarme della democrazia in pericolo ed i diritti a rischio, come l’aborto e la procreazione assistita cui è particolarmente sensibile l’elettorato femminile.

TRUMP spingerà al massimo il repertorio della «carneficina americana» – soprattutto «l’invasione» sul confine, infallibile motivatore emozionale di movimenti reazionari. Sfortunatamente per Biden i sondaggi continuano ad indicare che l’argomento rimane di forte presa sull’elettorato, in parte anche quello democratico.
Su queste dinamiche si innestano fattori insondabili del panorama post politico in cui masse di voti sono suscettibili a campagne (ed alla disinformazione) social, che rendono meno scontate le lealtà di tradizionali blocchi elettorali, come quelli ispanici ed afroamericani, senza contare la variabile della crescente conflagrazione geopolitica.
Tutto questo influirà sull’esito finale, che sarà determinato con ogni probabilità in una manciata di battleground states, gli stati “in bilico” che assegneranno i grandi elettori necessari a prevalere nel collegio elettorale da cui dipende la vittoria.