Poco più di cento giorni e Kamala Devi Harris sarà la 47ma presidente degli Stati Uniti.  Non solo una bella speranza. Uno scenario più che possibile. Un’ipotesi – la vittoria democratica il 5 novembre 2024 – che fino a sabato scorso era considerata remota, se non fuori della realtà, con la rassegnazione generale, anche nello stesso campo di Biden, all’elezione, addirittura a valanga, di Donald Trump, un successo tale da trascinare con sé la conquista dei due rami del Congresso.

Non una semplice vittoria repubblicana ma l’inizio di una permanent majority del MAGA, il movimento dei fedelissimi di Trump che oggi controlla totalmente il Grand Old Party.  L’irruzione sulla scena, sorprendente seppure attesa, di una nuova sfidante impone ora un altro campo di gioco.

Una partita del tutto diversa da quella raccontata fino a sabato scorso, Nella quale non c’è più disparità evidente tra i due contendenti, ma nella quale, anzi, i due rivali sono ad armi pari – lo dicono gli ultimi sondaggi – con un possibile balzo in avanti della candidata in pectore dei democratici.

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Se la rinuncia di Joe Biden era stata preannunciata dalla clamorosa rivolta dei big donor contro il presidente/candidato, i sessanta milioni di dollari raccolti da Kamala Harris in un sol giorno, domenica, sono un indizio corposo della ripartenza democratica, insieme al pronunciamento a suo favore di Emily’s List, del gruppo parlamentare nero e di pesi massimi del partito. Con, per ora, alcune importanti eccezioni – Obama, Schumer, Jeffries, Sanders – che non propongono una candidatura alternativa ma raccomandano un percorso politico limpido verso una convention aperta, che non sia dunque solo una cerimonia d’incoronazione per acclamazione.

Un distinguo di metodo che fotografa una situazione ancora carica d’incognite politiche dentro il partito. L’unità da tutti invocata intorno alla scelta di Kamala va sostenuta con una mobilitazione politica che poi possa produrre la spinta necessaria alla candidata contro un avversario che può contare non solo su un partito unito e a lui asservito ma anche su un movimento militante.

Una scelta condivisa, non calata dall’alto, darebbe più forza a una candidata che da vicepresidente non ha brillato nel suo stesso partito e che nella convention di Chicago, ad agosto, dovrà conquistare i cuori dei refrattari.

La sostituzione di Biden non fa presa sui militanti e sugli elettori democratici che rimproverano al presidente ben altro che la sua età e la sua salute precaria, e con lui la sua vice, come certe scelte politiche, specie nella politica internazionale, che il prossimo arrivo a Washington del premier israeliano Bibi Netanyahu non farà che mettere in lacerante evidenza.

Nel percorso di qui alla convention non va trascurata la scelta del numero due del ticket. Tra i candidati spicca Josh Shapiro, governatore della Pennsylvania, uno degli stati chiave nelle prossime presidenziali. Shapiro è anche il politico democratico che con più durezza ha preso posizione contro le proteste pro-Palestina nei campus.

È solo un esempio del tragitto stretto e insidioso in cui si trova a muoversi Harris, con in più l’impresa – la più difficile – di ritagliarsi una figura che la caratterizzi non più come numero due e la distingua da quella di Biden, senza al tempo stesso prenderne le distanze. Compito ancora più arduo di fronte al fuoco intenso contro la Casa bianca da parte di Donald Trump e dei suoi accoliti che chiedono le dimissioni del presidente, giocando sull’evidenza che è stato considerato inadeguato come candidato presidenziale dal suo stesso partito.

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L’intento di Trump è chiaro. Delegittimare Biden, il presidente in carica, insinuando una connivenza e una copertura politica da tempo delle sue reali condizioni, e creare un clima di confusione istituzionale in cui contestualizzare e negare una sua eventuale sconfitta. Ripetere insomma la situazione di caos che portò all’assalto a Capitol Hill, aggiungendovi la narrazione retrospettiva di un’amministrazione guidata illegittimamente da un presidente mentalmente incapace.

Di qui a novembre la coabitazione di Kamala Harris con un presidente che continuerà comunque a essere osservato con implacabile attenzione dai media e dagli avversari potrebbe rivelarsi il problema più ingombrante per lei, mitigato in parte dalla stessa attenzione rivolta a Trump. Anziano, malandato come Biden, capace non di gaffe come il suo ex rivale ma di enormità razzistiche e misogine ineguagliabili che, avendo come rivale una donna, nera, figlia d’immigrati, saranno frequenti e pesanti.
Potranno consolidare il consenso già forte nella sua base, ma gli renderanno molto più difficile l’offensiva di persuasione verso settori elettorali come neri, ispanici, asiatici e verso l’elettorato femminile.

La candidatura di Kamala Harris riporta dunque in primo piano lo scontro tra le due Americhe che solo elucubrazioni politiche avevano tentato di archiviare attribuendo a Trump, sull’onda emotiva del fallito attentato alla sua vita, un cambiamento di registro, a favore di una ricomposizione della frattura che divide il Paese, un Trump ecumenico, che, se mai è esistito davvero, è durato forse qualche ora, dopo lo shock dello scampato pericolo.

La candidatura di una donna nera, figlia di immigrati, ridà forza al Partito democratico e registra la resilienza di un’America plurale delle diversità, ma dà anche nuovo impulso all’America suprematista, razzista, xenofoba e misogina, capace anche con la sovversione di prendersi il potere, cancellando diritti e avanzamenti conquistati in anni d’impegno e di lotta. È in questo scontro, nel suo esito, la posta in gioco dell’Election Day.