No, non sono stati solo i balbettii durante il dibattito con Trump, e neppure la gaffe di presentare Zelensky chiamandolo “Putin” a costringere Biden a ritirarsi. No, a essere fatali sono state le immagini di Gaza, delle donne sotto le macerie, dei bambini che stanno morendo di fame. Uscire da una guerra è più difficile che entrarci, si sa, e Biden negli ultimi due anni erano entrato in ben due guerre costose e poco popolari, in particolare quella di Israele, sostenuto in ogni modo dalla Casa Bianca.

Il grande pubblico americano ignora volentieri la politica estera, guarda alle performance dei candidati e al proprio portafoglio. Ma per eleggere un deputato, un senatore o un presidente i democratici hanno bisogno di due specifici segmenti di pubblico più sensibili alle questioni della guerra e della pace: i giovani e le donne. Senza di loro i candidati democratici non vanno da nessuna parte. E i numeri dei sondaggi negli ultimi tre mesi erano impietosi: il consenso a Biden tra gli elettori fra i 18 e 29 anni era crollato, con moltissimi di loro decisi all’astensione e una piccola parte addirittura pronta a votare Trump. Soprattutto, i voti mancanti erano nei cosiddetti stati in bilico, quelli che determinano la vittoria nel collegio elettorale (quelle americane sono elezioni di secondo grado).

Nei sondaggi dei sei stati decisivi – Wisconsin, Michigan, Pennsylvania, Georgia, Arizona e Nevada – Trump è in vantaggio dappertutto, con un margine fra i 3 e i 5 punti. Perfino nel fedele New Jersey il candidato repubblicano è in testa, sia pure di poco. I numeri sono impietosi.

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La storia non si ripete ma può insegnare qualcosa e questo 2024 assomiglia terribilmente al 1968, quando la rivolta giovanile contro una guerra che non si poteva vincere costrinse Lyndon Johnson alla rinuncia a un secondo mandato. La situazione di oggi in parte riflette la camicia di forza culturale a cui nessun presidente americano può sottrarsi perché le classi dirigenti degli Stati Uniti sono ossessionate dal mantenere il ruolo egemone del loro paese sul pianeta e quindi a combattere, sia pure indirettamente, Russia e Cina, oltre che difendere Israele. Per un altro verso, invece, la rinuncia di Biden oggi è anche il frutto delle somiglianze di formazione politica e di esperienze tra lui e Johnson.

Entrambi questi due presidenti venivano da una lunga esperienza in Congresso, in cui erano entrati molto giovani: a 29 anni Johnson (alla Camera nel 1937), a 30 Biden (al Senato nel 1972). Johnson fu deputato, e poi senatore, per complessivi 24 anni, fino al 1961, quando divenne il vicepresidente di Kennedy. Biden è stato senatore per un periodo ancora più lungo: 36 anni prima di diventare vicepresidente con Obama. Lunghissime esperienze che ne hanno modellato lo stile politico e la visione del mondo, in particolare una fiducia illimitata nelle possibilità degli Stati Uniti.

Johnson era un uomo della Guerra fredda e della Great Society, un democratico che combatteva la segregazione razziale e la povertà. Biden è il presidente che ha dovuto affrontare il disastro sanitario e sociale lasciato in eredità da Donald Trump, ha fatto passare leggi in difesa dell’ambiente limitate ma non irrilevanti, ha cercato di migliorare l’assistenza sanitaria e di alleggerire il debito degli studenti universitari. Entrambi hanno dovuto fronteggiare fiammate inflazionistiche che non si aspettavano e che non sapevano bene come combattere.

Lyndon Johnson distrusse la sua presidenza mandando mezzo milione di soldati in Vietnam. Joe Biden si è limitato ad ammonire blandamente Netanyahu, senza risultati, e a svuotare le casse dello stato per mandare armi in Ucraina. Come Johnson, Biden sembra non capire la forza del nazionalismo altrui, centuplicata quando si tratta di difendere la Patria dall’occupazione straniera o dalla minaccia di perdita di territori.

Johnson non capiva Ho Chi Minh, Biden pensa che Putin sia un tirannello di seconda categoria invece che l’espressione di una visione del mondo che risale a Pietro il Grande e che certo non può accettare la perdita della Crimea, oggetto di un’invasione occidentale già nel 1854. Ancor peggio: l’attuale amministrazione di Washington non ha una strategia verso la Cina, dove Xi Jinping palesemente vuole lasciare come sua eredità politica la riunificazione del paese, reincorporando Taiwan.

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Né Putin né Xi sono bravi ragazzi e sicuramente i loro popoli starebbero meglio senza di loro. Né l’uno né l’altro, però, vogliono invadere il Kansas (e neanche la Polonia, o l’India): quello che vogliono è riconoscimento, non umiliazione. Confini sicuri, preferibilmente senza basi americane giusto al di là dei loro fili spinati. Né l’uno né l’altro sono più paranoici di quanto lo siano Biden e i suoi mediocrissimi consiglieri.

In sostanza Biden, più che un ottuagenario con problemi cognitivi (forse minori di quelli che emergono dai discorsi sconclusionati di Trump) è un politico di un’altra epoca, prigioniero di esperienze e categorie intellettuali che risalgono a mezzo secolo fa, forse anche di più. Il suo ritiro, qualunque cosa succeda adesso, era inevitabile.