Ciò che era diventato inevitabile una sera di giugno, quasi un mese fa, si è infine avverato una domenica mattina di luglio. Sono passati 24 giorni da quando milioni di Americani hanno seguito allibiti la peggiore performance del presidente sui cui da tempo gravavano interrogativi di competenza. Da quel catastrofico dibattito con Donald Trump, per Joe Biden è iniziato il conto alla rovescia nella crescente consapevolezza che nulla avrebbe potuto cancellare dagli occhi degli elettori le immagini di un uomo anziano in balia di un avversario truce, pronto a riprendere il potere dopo aver tentato con al forza di conservarlo.

Quell’immagine era la stessa antitesi del vigore e della leadership che è imprescindibile proiettare in una moderna campagna politica. Il primo istinto del presidente e dei suoi sostenitori è stato di fare quadrato attorno al suo curriculum presidenziale, quella stessa lista di risultati ottenuti cui ha voluto inevitabilmente fare riferimento nella sua lettera di rinuncia.

L’amministrazione dell’uomo scelto nel 2020 per pacificare e normalizzare la nazione dopo le convulsioni dell’era Trump, la pandemia ed un tentato colpo di stato, ha effettivamente ottenuto molto – oggettivamente più di Obama – su welfare e occupazione e anche sull’economia al netto dell’inflazione (pur riportata al 3%). Ma combattere sui risultati passati una battaglia che riguardava i dubbi sul futuro, è sempre stato del tutto inutile.

L’inquietudine riguardava la capacità di far fronte alla campagna, per non parlare di quattro ulteriori potenziali anni da presidente. E dopo che il dibattito aveva tramutato l’ansia in panico, non c’è mai davvero stato il modo di far rientrare il genio nella bottiglia. Ora che il terremoto a lungo annunciato c’è stato, il partito aspetta gli assestamenti tellurici che potranno seguirvi, quelli che riguardano la “successione”.

Poco dopo l’annuncio Biden ha fatto seguire l’endorsement di Kamala Harris come nuova candidata. L’investitura ha senso per molti motivi, principalmente quello che la vicepresidente è comunque una titolare della campagna Biden Harris, un mastodontico meccanismo avviato ormai da oltre un anno con tutti crismi legali, l’organico, la struttura, critica, per il “fund raising” oltre ad un team politico che potrebbe continuare con una misura di continuità. Ripartire da zero a meno di tre mesi dalle elezioni sarebbe improponibile da un punto di vista pratico, oltreché rischioso da quello politico.

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Per indire ad esempio nuove primarie aperte ad un campo di nuovi pretendenti non vi sono i tempi tecnici (la convention di Chicago si terrà fra meno di un mese), e potrebbe scatenare una distruttiva lotta intestina alle soglie delle elezioni. L’ipotesi più realistica è che il partito si unifichi dietro all’”investitura” data da Biden alla Harris e si concentri sulla selezione di un/una candidato/a vicepresidente che si preannuncia oltremodo cruciale per tentare di ricostituire una coalizione vincente che l’incertezza su Biden aveva sfilacciato.

Le coalizioni che hanno portato alla vittorie di Obama e quella di Biden, hanno unito donne, giovani, minoranze e l’ala progressista del partito, ed è questo il compito che si prospetta per i democratici nei prossimi mesi. Le donne sono state la componete fondamentale che ha permesso di tenere la linea negli scorsi midterm del 2022, grazie soprattutto alla rabbia diffusa per l’abrogazione del diritto ad abortire da parte della Corte suprema trumpiana. La buona notizia per i Dem, è che Kamala Harris è stata principale esponente della difesa dell’aborto per l’amministrazione Biden, ed è quindi preparata ed avvantaggiata in una materia sui cui i repubblicani sono invece assai vulnerabili, specie dopo l’aggiunta al ticket dell’antiabortista JD Vance.

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Anche sui giovani la dipartita di Biden dovrebbe giovare, iniettando nuovo interesse, e potenzialmente entusiasmo, in un’elezione che si giocherà in gran parte sulla disaffezione, e la motivazione per vincere un’apatia ripetutamente espressa, prima del ritiro, soprattutto dalle nuove generazioni nei confronti di entrambe gli anziani candidati. E l’assenteismo fra giovani potrebbe risultare fatale soprattutto per i democratici. (Pratica a parte è la guerra di Gaza, e non vi sono indizi che una presidente Harris varierà significativamente sul sostegno ad Israele, principale motore della contestazione studentesca).

Una delle questioni più delicate riguarda gli Afro Americani, il segmento storicamente più affidabile per i Dem (e direttamente responsabile della vittoria di Biden nel 2020) è stato fra più esplicitamente contrari alla sua sostituzione. Paradossalmente molte donne politiche nere, blocco decisivo del recente attivismo di base del partito, si sono espresse contro la sostituzione del presidente con Kamala Harris. La scorsa settimana, una lettera che a chiesto a Biden di restare, aveva raccolto 1400 firme, fra cui quelle di Carol Mosley Brown, prima senatrice nera e di Keisha Lance Bottoms, ex sindaca di Atlanta.

Sui social infuria tuttora la polemica delle irriducibili che denunciano il “tradimento” delle élite, dei media e “potenti maschi bianchi.” Parole dure che giungono a minacciare la scissione in un partito attraversato da faglie identitarie, e danno la misura degli strappi che dovranno ora venire ricuciti in tutta fretta. Ed il discorso riguarda in modo simile anche la corrente progressista, quella di Bernie Sanders e Alexandria Ocasio Cortez, che si erano esposti in un sostegno “incondizionato” alla candidatura Biden e che dovranno ora venire ricondotti al nuovo corso.

È probabilmente necessario che i giochi si chiudano in gran parte prima del congresso di Chicago o, in alternativa che la convention sia formalmente aperta sulla questione del vice, per dare una parvenza di voce in capitolo a base e delegati, ma “pilotata” per minimizzare effettivi conflitti interni. Solo una ferrea disciplina potrà portare a casa, a questo punto, una campagna in storico scompiglio.