«Chi, come me, ha avuto la fortuna di realizzare il sogno americano, si porta dietro per sempre i fantasmi della vita che si è lasciato alle spalle»: milioni di proletari bianchi per i quali «la povertà è una tradizione di famiglia, i loro antenati erano braccianti nell’economia schiavista del Sud, poi mezzadri, minatori e infine, in tempi più recenti, meccanici e operai. Gli americani li chiamano hillbilly, redneck o white trash. Io li chiamo vicini di casa, amici e familiari». Quando nel 2016 J.D. Vance pubblicò il suo memoir Hillbilly Elegy (tradotto l’anno successivo nel nostro Paese da Garzanti con il titolo di Elegia americana), in molti vollero cogliere in quella storia commovente di redenzione e di riscossa, intrisa però di precetti morali e di elogio dell’individualismo, una sorta di metafora della filosofia del Make America Great Again che nel frattempo Donald Trump aveva iniziato a predicare. (Il numero 24 della rivista Acoma, «Poor Whites/White Trash» offre diverse analisi del significato del volume, www.acoma.it ).

IN QUEL LIBRO, divenuto rapidamente un bestseller e portato in seguito sullo schermo da Ron Howard, con la straordinaria interpretazione di Glenn Close nel ruolo della nonna del protagonista, Vance racconta la sua infanzia in una famiglia disfunzionale di poveri bianchi figli dell’immigrazione dagli Appalachi verso l’area industriale dell’Ohio, prima che anche questa zona si trasformasse nell’attuale Rust Belt: un viaggio andata e ritorno nella povertà accompagnato dalle difficoltà relazionali e dai problemi di dipendenza da alcol, droga e psicofarmaci della madre.

Cresciuto da mamma e nonna, il giovane Vance si sottrae a un avvenire problematico dapprima arruolandosi nei marines e quindi studiando scienze politiche all’Università dell’Ohio e quindi legge a Yale per approdare, infine, al mondo della finanza che ruota intorno alla Silicon Valley e, di lì, alla politica, naturalmente nel Partito repubblicano. Perché la storia di cui Vance è stato protagonista e che gli è servita come biglietto da visita per il debutto nel Grand Ole Party, eletto al Senato di Washington per l’Ohio lo scorso anno e quindi scelto lunedì da Trump come proprio vice in caso di vittoria alla convention repubblicana di Milwaukee, racconta la crisi sociale che ha investito l’America negli ultimi decenni come una sorta di disgrazia personale che si è abbattuta in primo luogo su coloro che non erano disposti a rimboccarsi le maniche, a differenza dei lavoratori bianchi del passato, «i nonni» dell’autore cresciuti nei valori tradizionali e pronti a farvi ricorso di fronte ad ogni sfida.

PIÙ ANCORA che l’autobiografia di un uomo di successo, Hillbilly Elegy appare perciò come una sorta di manifesto politico: quello di una nuova destra che non ha paura di parlare di «proletariato bianco» o di abbandono del popolo da parte delle élite, ma che in nessun caso ritiene che spetti allo Stato, alle iniziative federali o alla politica economica nazionale il compito di raddrizzare questa china: è tutto e soltanto racchiuso nel successo dell’iniziativa personale, nel «sapersi mettere in gioco», senza nulla aspettarsi dagli altri come dalla collettività. Indicato come un astro montante della nuova destra,

J.D.Vance è sembrato perciò muoversi fino ad oggi più nel solco della tradizionale ala destra del Partito repubblicano, segnata dal neoliberismo e dalle «guerre culturali» contro i progressisti, che non nella direzione tracciata da Trump che ha preso di mira prima di tutto proprio la vecchia leadership conservatrice. Non a caso, quattro anni fa il 39enne senatore di Middletown non sostenne il tycoon e ebbe anzi parole molto dure nei suoi confronti – «potrebbe diventare l’Hitler d’America»-, ma poi, progressivamente, forse anche grazie al sostegno alla sua campagna elettorale da parte del miliardario di ultradestra Peter Thiel molto legato a Trump, a rivisto le sue posizioni, portando in dote al candidato unico del Gop anche il suo no intransigente all’aborto e ai migranti e la sua posizione per una riduzione del sostegno a Kiev.

A BEN GUARDARE, però, con la sua nomina nel ticket presidenziale della destra, si compie anche un altro passaggio: Vance è schierato su posizioni radicali ma appare diverso da molti dei sostenitori di Trump della prima ora, la sua traiettoria sembra piuttosto fotografare plasticamente l’avvenuta trasformazione dei repubblicani in una forza politica che non si è solo data un nuovo leader, ma che ha definito una nuova piattaforma ideologica per il presente e forse per il futuro, un po’ come avvenne con Nixon e con Reagan, ma questa volta nel segno di una evidente deriva post-liberale. Forse non a caso, nel suo fortunato libro, J. D. Vance faceva risalire tutti i mali del Paese ad una «crisi di civiltà» che ora, accanto a Trump, intende combattere grazie ricette terribili e pericolose.