È senza apparente soluzione la telenovela che rischia di travolgere il partito democratico e la democrazia americana. Da un lato è un crescendo di voci che darebbero per imminente una sostituzione di Joe Biden come candidato presidenziale. Il tamtam è in parte auto-generato (o auto-amplificato nel frullatore mediatico). Dall’altro i sondaggi sembrano parlare chiaro: due terzi degli elettori preferirebbero un cambiamento al vertice.

Sono numeri che attualmente pesano sulle sorti del partito più di quelli che vedono Trump e Biden sostanzialmente inchiodati sulla parità statistica. I numeri non permettono tuttavia di archiviare la faccenda, visti i dinieghi categorici dal campo del presidente. Ancora giovedì, a Milwaukee, il vicedirettore della campagna Quentin Fulks ha ripetuto per l’ennesima volta che «stiamo procedendo per sottolineare il contrasto con il programma estremista che i repubblicani hanno illustrato nella convention. Non vi sono piani per sostituire Biden».

A preoccupare molti democratici sono però quelli nei sei swing states determinanti, in cui lo svantaggio di Biden sembra aumentare. E l’imprevedibile condizione psicofisica su cui non può esservi certezza mentre la campagna entra nelle settimane decisive. Né si intuisce cosa potrebbe placare i dubbi, non solo della base ma dei leader democratici che continuano a sommarsi al coro. L’altro ieri è stata la volta di Adam Schiff che ha svolto un ruolo centrale nell’inchiesta sui fatti del 6 gennaio. Ad oggi 22 parlamentari democratici (di cui due senatori) hanno rotto gli indugi chiedendo un passo indietro al presidente.

Rimangono sibillini i leader del parlamento, Chuck Schumer, Nancy Pelosi, e Hakeem Jeffries (che stando alle voci, farebbero però pressione in privato per un ritiro). Assordante, e compatibile col timore generalizzato di fare la prima mossa, il silenzio degli Obama e dei Clinton. Ma temporeggiare rischia di per se di destabilizzare il partito.

Ieri Ilhan Omar, parte dello “squad” progressista, ha definito inaccettabile la mancanza di leadership unitaria nel partito. Omar, originaria della Somalia, è rappresentante del Minnesota ed è rappresentativa di una scissione che vede le dichiarazioni più veementi a favore di Biden provenire da esponenti afro americane, che costituiscono un blocco decisivo nel consenso e del recente attivismo di base del partito. Ieri 1400 esponenti della categoria hanno firmato una lettera chiedendo a Biden di restare. La lettera che considera “irrispettoso delle sostenitrici del presidente chiedere che si ritiri dopo aver vinto le primarie,” reca le firme tra le altre di Carol Mosley Brown, prima senatrice nera e di Keisha Lance Bottoms, ex sindaca di Atlanta. Sui social il dibattito è incandescente, con molte afro americane che denunciano un complotto per sabotare la prima vice presidente nera, scagliandola in una campagna ormai nel caos (piuttosto che puntare ad una eventuale successione durante un secondo mandato.)

Un’altra inattesa faglia politica si starebbe aprendo fra i “sostituzionisti” e l’ala progressista di Bernie Sanders e Alexandria Ocasio Cortez. La sinistra del partito vedrebbe nella continuità di Biden un modo per continuare a contrattare un sostegno che ha fruttato risultati su welfare e riforme e potrebbe portarne ulteriori (ad esempio riforma della corte suprema).

Il tutto questo l’impasse andrebbe risolto in tempi strettissimi. In questi giorni si è parlato di “finestra di 72 ore,” ed esistono anche considerazioni di ordine pratico e legale, come i termini ultimi per iscrivere un candidato sulle schede dei singoli stati. Sull’angoscia democratica pesa poi la coscienza che, ove le questioni dovessero dirimersi in ambito giuridico, l’ultima parola spetterebbe alla solita Corte suprema palesemente sbilanciata a a favore di Trump.

Secondo la Nbc il tutto avrebbe prodotto profonda amarezza in Biden, attualmente segregato in Delaware con “lievi sintomi” di Covid, e il ritorno di vecchi rancori. Fonti molto vicine al presidente avrebbero alluso direttamente al fatto che «alcune delle stesse persone» che oggi spingono per il ritiro di Biden, «ci hanno in passato regalato Trump». (Nel 2016 la leadership del partito di Obama, Pelosi e Schumer, aveva “scavalcato” Biden, preferendogli Hillary Clinton come candidata – poi sconfitta da Trump.)