La candidata per la presidenza della Commissione sarà Ursula von der Leyen, anche se la cena che avrebbe dovuto consacrare la sua candidatura è stata un fallimento. Il Ppe, per bocca del presidente Weber e del delegato a trattare Tusk, quasi già lo annuncia: «Siamo molto vicini all’accordo». Il voto del Parlamento, previsto per il prossimo 18 luglio, però resta a rischio e il nodo principale è il rapporto con la premier italiana e con il suo partito.

La levata di scudi di Giorgia Meloni nella cena di Bruxelles ha colto tutti di sorpresa eppure era quasi un atto dovuto. Inutile indagare su quale richiesta della premier italiana fosse stata cestinata per provocare quella reazione, il congelamento del poker di nomi per i vertici istituzionali europei: la discussione sull’assegnazione dei commissari ai vari Paesi non è stata neppure sfiorata. Meloni ha reagito a una messa in scena che aveva l’obiettivo preciso di evidenziare il suo isolamento e la sua superfluità. Le decisioni sono state prese non solo senza discuterle con lei ma senza neppure informarla, in una ostentazione di scortesia diplomatica che ha sorpreso anche molti dei capi di governo seduti intorno al tavolo imbandito. Per una premier che da due anni si vanta di aver restituito all’Italia una postazione centrale in Europa non si possono immaginare umiliazione e danno politico maggiori.

Macron e Scholz, d’altra parte, non disponevano di altre armi per rendere concreto il loro rifiuto di trattare con la destra di Ecr. Nessuno può vietare a chicchessia di votare per un candidato e tenere ai margini la leader tornata infrequentabile dopo due anni di flirt assegnando al suo Paese un commissario di serie b non è facile, trattandosi del terzo Paese dell’Unione. La messa in scena era d’obbligo, la reazione dell’umiliata e offesa pure.

Il rinvio risponde però anche a calcoli tattici. Meloni ritiene di poter avere tra dieci giorni, quando il Consiglio si riunirà stavolta in via ufficiale per definire le quattro candidature, carte migliori di quante non ne avesse nella disastrosa cena. È possibile che vada davvero così. Sui rapporti con la destra più presentabile, cioè quella atlantista, il Ppe è diviso. Lunedì a Bruxelles è emersa l’ala che vuole relegare tutta la destra ai margini. Tusk ha agito di concerto con Macron e Scholz sottolineando che «non serve chiedere i voti a Meloni: abbiamo la maggioranza da soli». Ieri si è fatta sentire l’altra sponda, con il presidente del partito Weber attestato sulla posizione opposta: «I cittadini hanno votato. La Ue è di centrodestra e bisogna tenerne conto nelle nomine».

Il Ppe inoltre non sembra disposto a fare concessioni di sorta ai Verdi. In questi 10 giorni quei fondamentali voti di rincalzo potrebbero svanire e a quel punto il soccorso della trentina di voti Ecr di cui dispone Meloni potrebbe rivelarsi decisiva, a fronte del possibile plotone di franchi tiratori.
Se sul nome della presidente della Commissione nessuno ha avanzato vere obiezioni, poi, la stessa cosa non può dirsi per gli altri top jobs. I popolari ingoiano di malavoglia il socialista portoghese Costa come presidente del Consiglio europeo e insistono per la staffetta con un esponente del Ppe dopo due anni e mezzo. I socialisti escludono la possibilità ma reclamano la staffetta per la presidenza del Parlamento, che la maltese Roberta Metsola dovrebbe cedere a un socialista a metà mandato. Le tensioni tra i due principali partiti creerebbero un varco nel quale Meloni avrebbe gioco facile nell’incunearsi.

Infine c’è una questione di numeri. Oggi Ecr è il quarto partito ma i liberali di Renew vantano appena tre seggi in più e con un centinaio di deputati perduti senza collare non è escluso che il rapporto di forza si rovesci di qui al 27 giugno. Meloni ha carte da giocare per ottenere quel riconoscimento politico che le serve per fornire a von der Leyen un “appoggio esterno” senza finire maciullata nel tritacarne del riassetto dei gruppi di destra nell’europarlamento. Ma deve vedersela anche con qualche nuova minaccia: è inevitabile che la riforma del Mes, con la firma negata dall’Italia, torni in primo piano come “prova” dell’europeismo della ex sovranista non abbastanza pentita.