Ora risulta ulteriormente certificato, alla luce dei dati dell’Istat appena diffusi: la povertà assoluta è sempre più diffusa e sempre più in aumento. In Italia, attualmente, vivono al di sotto della soglia di una vita dignitosa cinque milioni e seicentomila persone, corrispondenti a quasi due milioni di famiglie: questo ci dice l’Istat. Ma il problema riguarda anche tutti gli altri Paesi europei, riguarda tutto il mondo; per non dire dei Paesi storicamente più poveri, e di quelli appartenenti al mondo non occidentale in particolare. Basterebbe leggere al riguardo l’ultimo libro di Thomas Piketty, “Una breve storia della uguaglianza” (ed. la Nave di Teseo), o il recentissimo volume, uscito per il Mulino, di Chiara Saraceno, David Benassi ed Enrica Morlicchio, intitolato “La povertà in Italia” (dove si possono trovare, a dispetto del titolo, molte informazioni anche al di là della situazione specificamente italiana).

La stessa Chiara Saraceno, intervistata ieri su questo giornale, faceva notare che «il problema è chiaramente di lungo periodo»: sia nel senso che viene da lontano, sia nel senso che deve ancora esplodere in tutta la sua gravità.
La povertà intanto aumenta, complici anche la pandemia e la guerra, perché aumentano i poveri e perché l’area dei poveri, a sua volta, si sta sempre più allargando a nuove fasce di popolazione: dai piccoli lavoratori autonomi ai piccoli artigiani, e tanto più nelle fasce di età più avanzate. La povertà è diventata insomma una condizione che, sempre di più, tende a riguardare anche soggetti che poveri non erano mai stati e che mai avrebbero pensato di poter diventare tali: oggi quasi chiunque può avvertire il pericolo di scivolare nella povertà, si potrebbe affermare, e quindi quasi chiunque può avvertire il senso della propria fragilità.

Non solo. La povertà è una spirale, più che una condizione statica, perché l’accompagna sempre anche la paura, quando se ne venga travolti, di non poter liberarsene più, come se il debito fosse destinato a trasformarsi in una specie di notte permanente, senza vie di fuga: e questo genera l’avvicinamento ai circuiti illegali, alla criminalità organizzata, a tutte quelle varie forme di assistenzialismo deviato che prendono il nome di «welfare criminale». La povertà può condurre verso la marginalità sociale e rischia di tramutarsi, come per effetto di un circolo vizioso, in qualcosa che preferiamo non vedere, o respingere: come se non vedere un problema potesse ridurlo, risolverlo, eliminarlo. Alcuni studiosi parlano addirittura di «paura dei poveri», di «aporofobia». Abbiamo paura della povertà perché i poveri potremmo essere anche noi. I poveri rappresentano un elemento costitutivo di quell’oscurità indagata da Alessandro Dal Lago e da Emilio Quadrelli in un saggio magistrale di molti anni fa, “La città e le ombre”: rappresentano cioè la «turbolenza quotidiana» che passa ogni giorno accanto alle nostre vite e le scuote, perché ci ricorda che ognuno di noi, in fondo, non è altro che l’ombra di sé stesso.

Davanti a tutto ciò il diritto non può permettersi di rimanere inerte, naturalmente: la realtà sociale lo chiama sempre in causa per definizione, perché il suo compito è proprio quello di fornire alla realtà e alla politica una grammatica di funzionamento. Si tratterebbe allora, in primo luogo, di migliorare o correggere gli strumenti giuridici già esistenti a disposizione dei debitori; e magari, in secondo luogo, di pensarne anche di nuovi, di ulteriori. Per dire: esiste dal 1996 una legge sull’usura a tutela dei soggetti che vi sono esposti, ma la sua applicazione fino ad oggi è stata scarsissima. Peggio ancora: ad oggi i fondi di solidarietà previsti a favore delle vittime dell’usura sono perfino inutilizzabili, perché il potere di distribuirli spetta al Commissario Straordinario per il coordinamento delle iniziative antiracket, istituito dalla legge stessa presso il Ministero dell’Interno, il cui posto è però vacante da febbraio. Sarebbe dunque urgente, come minimo, nominare subito il Commissario; e poi si potrebbe far seguire alla nomina una discussione più distesa su una riforma strutturale della legge, che la renda più fruibile.

Quel che è certo è che il diritto non può bastare da solo. Quello che serve è un respiro più largo, che superi i puri e semplici dispositivi formali, i puri e semplici elementi tecnici. Il diritto, esattamente come la politica, non dovrebbe mai accontentarsi di amministrare l’esistente, limitandosi a prenderne atto; dovrebbe coltivare ambizioni più vaste. Ma quello che serve, anche al diritto, è una direzione di senso e di valori.

*Membro del Comitato direttivo dell’Osservatorio sul Debito Privato presso l’Università Cattolica
**prorettore della Cattolica e direttore dello stesso Osservatorio