C’è una troupe teatrale molto indipendente, attori, musicisti, danzatori, un regista e una bambina, ognuno per permettersi il «lusso» dell’arte fa qualche altro lavoro, ma i soldi non bastano mai. Come andare avanti? E, soprattutto, in che modo conciliare l’indipendenza artistica con la sopravvivenza? Por el dinero – alla Quinzaine des realisateurs – è il sesto film di Alejo Moguillansky, cineasta argentino che con Laura Citarella e Mariano llinas è uno dei fondatori di El Pampero, la società che ha prodotto il fluviale La Flor, successo in Francia e nel mondo. C’è senza dubbio in questo film un riferimento alla loro esperienza, con elementi di realtà come la presenza nel ruolo di una delle protagoniste della moglie del regista, attrice e danzatrice, Luciana Acuna, e della sua figlioletta, Chloe.

ANCHE LA STORIA si svolge a partire da una piece che avevano messo in scena qualche anno fa in un festival, ma è soprattutto il soggetto che fonda il racconto a essere al tempo stesso materia letteraria e estremamente reale: i soldi di cui ogni artista ha bisogno per realizzare la propria opera, necessità che mette in gioco altre riflessioni a cominciare dalla propria libertà. Come essere indipendenti quando si ha bisogno di finanziamenti pubblici, di sovvenzioni che spesso chiedono un compromesso? È una domanda comune, e antica, ma nel suo porla attraverso questa commedia Moguillansky sa inventare una forma nuova, che gioca tra situazioni assurde e paradossi.

SEGUIAMO i personaggi nella loro avventura, costretti a realizzare pubblicità, tutto il contrario dell’arte. La troupe arriva a un festival a Cali, in Colombia, laddove anni fa è nato il collettivo più underground e rivoluzionario del cinema del paese, che unito intorno a figure come Luis Ospina ha cambiato il volto del cinema indipendente colombiano e non solo. La televisione gli ha chiesto di allestire uno spettacolo che devono anche filmare in una specie di «Grande Fratello» ma mentre sono lì scoprono la possibilità di un’ altra fonte di ricchezza.

MOGUILLANSKY non cede mai al film «a tesi», non cerca di dimostrare nulla, al contrario si immerge nelle situazioni con autoironia e leggerezza, senza pretendere una soluzione. E se l’arte, o almeno la natura degli artisti fosse anche in questa incessante ricerca? Un limite e una spinta, un conflitto e una necessità. Un gioco in fondo anche questo.