«Ci saranno delle tempeste su Cannes?» titolava ieri il quotidiano «Libération» a poche ore dall’inizio del Festival più atteso, che in questa edizione numero 76 ha ritrovato il suo regime abituale, vista la fine delle restrizioni per aree del mondo quali l’Asia e in parte gli Stati uniti, che più affollano il Mercato del film – punto di forza della manifestazione. Le «tempeste» in questione non si riferiscono soltanto al meteo – che prevede due settimane di pioggia, nonostante ieri splendesse il sole, a rovinare l’attesa dell’inizio di estate e la faticosa ricerca dell’outfit per l’occasione – ma soprattutto alle polemiche che hanno preceduto l’apertura affidata al film fuori concorso di Maiwenn, che ne è anche protagonista insieme a Johnny Depp, Jeanne du Barry – nelle sale francesi da oggi. E proprio la presenza di Depp è stata molto criticata da diverse associazioni femministe, visto il processo per maltrattamenti coniugali intentato contro l’attore dalla ex-moglie Amber Head – nel quale è stato riconosciuto innocente. Si sussurra anche che le relazioni sul set tra la regista e Depp non fossero delle migliori, e da più parti si imputa a Maiween di avergli restituito lo statuto di star dopo la caduta legata appunto ai fatti giudiziari.

POI C’È STATA la questione legata al film di Catherine Corsini, Le retour, tolto in un primo momento dal concorso, poi reintegrato, privato dei finanziamenti pubblici per le accuse di violenze sul set. A difenderlo si sono schierati due dei suoi protagonisti, con una lettera inviata alla stampa, mentre il collettivo femminista 50/50 ha sottolineato in un testo diffuso pubblicamente come il festival di Cannes, nel 2023 «non ha operato la trasformazione necessaria sul tema delle violenze sessiste, morali e sessuali». L’accusa rivolta al film è infatti di violenze nei confronti dei suoi giovanissimi protagonisti, appena adolescenti, a cui sarebbero state imposte scene di sesso. La vera «bomba d’acqua» però è stata lanciata da Adèle Haenel, attrice francese tra le migliori degli ultimi anni, attivista e femminista, che aveva già anticipato il suo desiderio di lasciare il cinema proprio su questo giornale (intervista di Simona Spaventa del 29/04/2022), ha rilanciato il suo definitivo addio a un ambiente del quale non tollera più la cecità e il «compiacimento verso le aggressioni sessuali, così come la complicità con l’ordine mondiale quale è oggi».

Thierry Frémaux
Le persone usano il festival per dare risalto a certi temi, ma se voi giornalisti davvero pensaste che questo è un festival di stupratori, non stareste qui ad ascoltarmiALLE CRITICHE il delegato generale del festival, Thierry Frémaux, ha risposto ieri che «le accuse sono false e sbagliate, il festival di Cannes non è un festival di stupratori». Nessuno lo mette in dubbio, ma il punto non è certo questo. Si parla di pressioni, di diseguaglianze salariali, dei «ricatti» esercitati col potere. Sempre ieri in una lettera aperta, un collettivo di attori e di attrici, circa un centinaio, si è schierato con Adèle Haenel, denunciando il «sistema disfunzionale» del cinema francese di fronte al quale hanno deciso di non tacere più viste le scelte politiche del festival di Cannes. Il testo denuncia «continue aggressioni sessuali, molestie morali, razzismo» insieme alle pressioni che troppo spesso vengono fatte di non denunciare «per il bene del film», o alle offerte di soldi dei produttori per comprare il silenzio.

Eccoci dunque a Jeanne du Barry, partito sugli schermi dopo una affollata montée des marches, e una lunghissima cerimonia inaugurale condotta da Chiara Mastroianni. Maiwenn raccontava in una intervista che la figura della cortigiana amata da Luigi XV, e ghigliottinata nel 1793, l’ha scoperta grazie a Marie Antoinette di Sofia Coppola – a interpretarla era Asia Argento. «L’avevano presentata come una donna volgare, che non è affatto eppure malgrado questo ho sentito subito una vicinanza con lei. Versailles era per me un po’ l’ambiente del cinema francese che mi rifiutava forse perché ero la moglie di Luc Besson, e che mi ha trattata con condiscendenza e aggressività, mi sentivo quasi una transfuga». Sarà, eppure per Maiwenn il cinema – anche se di diversa declinazione rispetto alle sue scelte – non è un universo nuovo, sua madre Catherine Belkhodja, lavorava con Chris Marker, la sorella, Isilde Le Besco è anche lei attrice e regista, poi certo con le famiglie si va in conflitto (lei si è tolta il nome famigliare) ma «transfuga» appare esagerato per una regista approdata col secondo film, Polisse (2011), a Cannes in concorso – vinse il premio della Giuria – dopo una serie di nomination ai Cesar (i David di Donatello francesi) per l’esordio Pardonnez-moi.
«Il governo c’è e sta lavorando con e per il sistema cinematografico italiano» dice, interpellata dall’Ansa, la senatrice leghista Lucia Borgonzoni, sottosegretaria alla Cultura, commentando non senza stupore le dichiarazioni del delegato generale del Festival di Cannes Thierry Frémaux che nella conferenza stampa di apertura aveva parlato di situazione italiana «paradossale» per lo scarso sostegno delle istituzioni al nostro cinema. «Il modello francese funziona, merito anche di quello che fa la politica, in Italia invece non accade ed è un peccato, così la crisi delle sale non si risolverà mai. Il cinema italiano è forte ma anche estremamente fragile e andrebbe protetto», le parole del delegato generale. Che film è allora Jeanne du Barry? L’odore di cipria e di parrucche traspira dallo schermo nonostante la modernizzazione della messinscena. Tra un prologo e un epilogo, infanzia e morte in voce off, il racconto si concentra sugli anni che la contessa di origini povere, corteggiatissima e molto odiata, passa a corte ,dal 1768 al 1774, da quando col suo arrivo restituisce il gusto per la vita al re sessantenne (Depp), inconsolabile dopo la scomparsa della marchesa di Pompadour, al momento in cui i nemici del sovrano, specie i tre figli, la cacciano dalla reggia alla sua morte. Super produzione, affollata di attori noti – India Hair, Melvil Poupaud – che rimangono però sullo sfondo; si focalizza sempre solo sul personaggio protagonista, sulla sua parabola di donna capace di farsi strada fino a arrivare alla vita regale, e su quell’amore che è vero, appassionato, contro ogni etichetta e per questo scandalizza la corte. Dal primo momento, quando sfidando le raccomandazioni del protocollo – «non guardate il sovrano negli occhi» – lo fa ovviamente e lui gli sorride con grande gusto. Amor fou. Subito, e se la odiano, se non ne sopportano l’estrazione di classe, l’irruenza, l’onnipresenza, la bellezza nulla importa. Lui l’ama, è pronto a sfidare chiunque per averla – a dispetto di una postura sempre un po’ mummificata di Depp, forse il lost in traslation della recitazione? Il riflesso autobiografico du Barry/Maiwenn e il sovrano/Besson leggendo appunto le dichiarazioni della regista può essere evidente, almeno per chi ne conosce la biografia. Resta però una suggestione, un fuori campo in ambizioni formali e di intenti che suonano mal riposte e alle quali non basta l’uso del 35 mm fino all’autorappresentazione godardiana – lei che sale una scalinata come quella in Le Mépris – per avere sostanza. Rimane un film vacuo, senza guizzi né sorprese, irrigidito nelle sue convenzioni come il più polveroso codice di corte.