«Quando gli uomini si riuniscono le loro teste si restringono», scrive nei propri Saggi Michel de Montaigne, osservazione che sembra applicarsi ai faticosi vertici di maggioranza dedicati al premierato elettivo. Il Senato, infatti, ieri ha approvato un articolo del ddl Casellati, il numero 3, che è consequenziale a quanto è previsto da un articolo successivo, il 7, che l’Aula potrebbe modificare rispetto alla versione in entrata. E non si tratterebbe di una ipotesi irreale, visto che siamo già alla quarta versione di questo provvedimento. Se i neuroni ieri in Senato non sono stati mobilitati, lo sono stati invece i muscoli, con il tentativo da parte del senatore di Fdi Roberto Menia di risolvere a cazzotti le diverse vedute sulla riforma. Iniziamo dalla cronaca pugilistica.

Sin dal mattino le opposizioni hanno ripreso a praticare l’ostruzionismo, cosa che ha innervosito molti senatori della maggioranza. Certamente molti di essi, specie quelli di Fdi, sono al primo mandato e non sono abituati a sedute estenuanti. Di qui il nervosismo di molti di essi, magari dopo un intervento accesso come quello del pentastellato Ettore Licheri, che ha esaltato i colleghi dell’opposizione e fatto imbestialire i colleghi di maggioranza.

Non è invece un peone Roberto Menia, alla sua sesta legislatura: e tuttavia è scattato precipitandosi dai propri scranni, per lanciarsi contro i banchi del Pd. Parapiglia generale, il senatore questore Antonio De Poli, che si becca una spallata, Marco Croatti, di M5S, che si scaglia con i suoi 190 centimetri contro Menia e commessi in campo a bloccare entrambi.

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Seduta sospesa mentre Menia e altri senatori di Fdi, come Rapani, fanno gestacci da “maschio alfa”, chissà, forse per rassicurare il Santo Padre sulle tendenze a palazzo Madama. Ma perché dunque lo slancio pugilistico di Menia: a fine seduta lo ha spiegato lui stesso («non sempre sono pensoso, talvolta sono fumantino»): era stato chiamato ad alta voce da alcuni senatori del Pd che protestavano per le sue allocuzioni contro Francesco Boccia. Non nominare il nome di Menia invano.

Passiamo invece a Montaigne e al merito dell’articolo del ddl approvato dal Senato. Esso modifica il semestre bianco, vale a dire quei sei mesi finali del mandato del presidente della Repubblica durante i quali non può sciogliere le Camere. L’articolo 3 del ddl Casellati prevede ora che egli possa ricorrere allo scioglimento se esso «è un atto dovuto». Ma che significa? È un coordinamento con le norme sulle crisi di governo contenute nel successivo articolo 7.

Qui si stabilisce che si vada direttamente a urne anticipate se il premier eletto viene sfiduciato da «una mozione motivata» oppure se è lui a dimettersi e a chiedere al Capo dello Stato lo scioglimento. Il punto è che l’articolo sulle crisi di governo è stato già modificato quattro volte dalla maggioranza, dall’iniziale cosiddetta «norma antiribaltone».

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E potrebbe essere ulteriormente modificato visto che l’attuale versione tace l’ipotesi su cui finora si sono verificate le uniche due crisi di governo su un voto di fiducia (Prodi nel 1998 e nel 2008), cioè quello di una fiducia negata al governo che la pone su un proprio atto. Un silenzio, dell’attuale articolo 7, perché con la Lega non si è ancora trovato un punto di equilibrio soddisfacente per tutti. Il relatore Alberto Balboni ha ammesso che sarebbe stato meglio inserire le disposizioni dell’articolo 3 nello stesso articolo 7, ma la furia di procedere comunque porta a questo.

L’aula ha anche approvato il quarto articolo, inserito durante i lavori della commissione recependo un emendamento di Marcello Pera. Esso esclude la controfirma da parte del governo di una serie di atti del presidente della Repubblica, controfirma prevista in Costituzione dall’articolo 89, dato che il Capo dello Stato è «irresponsabile» politicamente. L’emendamento Pera è stato pensato per aumentare l’indipendenza del presidente della Repubblica: non saranno più sottoposti alla controfirma «la nomina del presidente del Consiglio dei ministri, la nomina dei giudici della Corte costituzionale, la concessione della grazia e la commutazione delle pene, il decreto di indizione delle elezioni e dei referendum, i messaggi alle Camere e il rinvio delle leggi». Tutti atti che la letteratura indica come «propri» del presidente.