Cultura

Più che la rivoluzione si cercò la liberazione

Più che la rivoluzione si cercò la liberazione

L’onda anomala Questo movimento per la prima volta non voleva il potere. Al contrario, ha combattuto l’autorità in ogni ambito, dalla scuola al super-ego

Pubblicato circa 6 anni faEdizione del 2 novembre 2018

Una delle letture del ‘68 internazionale che più si sono radicate nel senso comune è quella che lo riduce a puro fatto di costume.

I movimenti giovanili come semplice sintomo, non certo motore primo, di trasformazioni già in corso, che sarebbero avvenute comunque. Credevano di cambiare il mondo ma non si accorgevano che il mondo cambiava loro.

Un simile modo di pensare serve a rimuovere o banalizzare la componente propriamente politica dell’anno (o degli anni) degli studenti, quella che all’epoca spaventò tanti, e che resta la più enigmatica, difficile da capire.

Perché un divario tra ciò che i movimenti credevano di fare e quello che effettivamente fecero c’era: mentre si metteva in scena per l’ultima volta il mito otto-novecentesco della rivoluzione emergevano (spesso inconsapevolmente) nuovi modelli di azione e di confitto, basati sull’identità personale e di gruppo e non più su categorie in precedenza decisive come le classi sociali.

Il sogno che animò nel profondo i movimenti del ‘68 non era quello della presa del potere, come nella classica tradizione rivoluzionaria, da Robespierre a Lenin; del resto gli eroi più amati erano coloro che non si fermavano mai, che riprendevano il cammino insurrezionale anche dopo che avevano vinto, a cominciare dal Che.

 

Ernesto Che Guevara intervistato dalla Cbs nel 1964
Ernesto Che Guevara intervistato dalla Cbs nel 1964

 

L’ideale dominante era piuttosto la liberazione, che contrapponeva in tutti gli ambiti, la fabbrica e le aule certo, ma anche la famiglia, le relazioni personali e la stessa struttura profonda di ciascuno, un potere autoritario (che si chiamasse padrone professore padre o anche Super-Ego) e un soggetto oppresso e bisognoso non tanto di acquistare potere quanto di uscire dallo stato di sottomissione e, soprattutto, di esprimersi.

L’emergere di una politica delle identità, con tutte le sue complessità e ambivalenze che hanno arricchito lo spettro della vita pubblica e permesso letteralmente l’ingresso di nuovi soggetti, e d’altra parte sta servendo da legittimazione anche a egoismi più aggressivi e nuovi odi, è in parte frutto di questo modo di pensare il confitto e l’azione collettiva.

Se teniamo conto di questo, possiamo comprendere il rapporto tra il ‘68 politico e i coevi cambiamenti in tanti altri aspetti del vivere senza schiacciarlo nell’interpretazione riduttiva che ricordavo all’inizio. È vero infatti che gli anni dei movimenti furono attraversati anche da novità di altra natura, per i quali è difficile individuare una radice comune, ma di impressionante simultaneità.

Nel film Le invasioni barbariche di Denys Arcand un personaggio dice: «E poi, a un certo punto del 1966 la gente smise di venire in chiesa». È una rappresentazione apparentemente semplicistica, eppure coglie qualcosa di vero: fu negli anni Sessanta che, in molti paesi, cominciò a crollare l’affuenza alle chiese e alle liturgie.

Non era, adesso lo sappiamo, la fine della religiosità, che anzi conobbe fin da allora forme di intensificazione in senso conservatore o anche ribelle. Era l’inizio di una diversa percezione della fede, sempre meno come passivamente accettata e sempre più come scelta personale.

Negli stessi anni si manifestarono grandi cambiamenti, anche questi relativamente imprevisti, in campo sessuale: da un lato la crescente autonomia delle donne, nella scelta del partner come nelle decisioni sul proprio corpo, dall’altro la liberalizzazione della pornografia, che in molti paesi – tra cui l’Italia – avvenne non per effetto di una legge ma semplicemente perché norme che fino a pochi anni prima erano parse inesorabili ora perdevano di credibilità e perfino di senso.

E negli stessi anni si verificò un cambiamento solo apparentemente marginale, in realtà carico di significato.

Tra il 1958-59 e il 1964-65 la lunga durata della danza di coppia che sotto forma di valzer, tango, o fox trot avevano dominato oltre un secolo e mezzo lasciò il posto a stili insieme più personali e meno regolati, prima il twist poi quello che per breve tempo fu chiamato shake per poi non avere più un nome preciso: ballare e basta.

La cosa che più colpisce è la spontaneità del fenomeno, la sua adozione generalizzata che prese di sorpresa la stessa industria musicale. Un «movimento giovanile» pre-politico ma che evidenziava un diverso rapporto con il corpo e con il ritmo, una diversa relazione tra i sessi, un bisogno di espressione personale.

La storia, contrariamente a quel che pensano molti storici, conosce di tanto in tanto delle fasi di accelerazione, delle vere e proprie ondate, che possono privilegiare alcuni paesi, alcuni strati, alcune generazioni, ma che è difficile spiegare con le stesse categorie che si usano per i più ricorrenti e ordinari confitti sociali.

A mezzo secolo di distanza negare che si sia manifestata negli anni Sessanta un’onda anomala, possiamo dire, che ha toccato simultaneamente aspetti molto distanti della vita, dalla musica alla religione al sesso, è semplicemente negare l’evidenza.

I movimenti del ‘68 hanno cercato più o meno lucidamente di sintetizzarne i diversi aspetti, con il linguaggio di cui disponevano, e di convogliarli in un progetto pubblico e collettivo. In parte ci sono riusciti, facendo emergere soggetti nuovi ed esigenze nuove, hanno messo in luce l’anima liberatoria che sottostava a quelle diverse istanze e hanno dato loro una voce o una polifonia di voci.

Dopo, non solo la società e le persone, ma anche la politica, per il bene o per il male, non è stata più quella di prima. È anche per questo che il ‘68 ha segnato una frattura ineludibile, anche se tanti vorrebbero liquidarla senza provare a capirla.

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