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Pilar Quintana, la mala madre, e intorno il torpore dei pomeriggi

Pilar Quintana, la mala madre, e intorno il torpore dei pomeriggiDoris Salcedo, «A fior di pelle», 2014

Scrittrici colombiane Nell’universo ristretto di una famiglia si riflette il paradigmatico contesto nazionale di Pilar Quintana, che vede nella anaffettività una consuetudine trasmessa da generazioni: «Gli abissi», edito da La Tartaruga

Pubblicato circa un anno faEdizione del 30 luglio 2023

Per raccontare le vicende di una famiglia colombiana della classe media di Cali, Pilar Quintana si serve dello sguardo di una bambina, ancora innocente ma già minacciato dalla inesorabilità del tempo, dalle tristezze, dalle maternità malate di noia e indifferenza: «Adoravo correre nella giungla – ricorda – farmi accarezzare dalle piante, fermarmi nel mezzo, chiudere gli occhi e ascoltarle. Il filo dell’acqua, i sussurri dell’aria, i rami nervosi e agitati. Adoravo salire le scale di corsa e guardarla dal piano di sopra, quasi dall’orlo di un precipizio, i gradini come se fossero un burrone fratturato. La nostra giungla, ricca e selvaggia, lì sotto».

La selva è un intricato giardino avventuroso ma controllabile, la rappresentazione delimitata di un ordine iniziale che a poco a poco si sgretola. Tra le pagine del suo romanzo Gli abissi (traduzione di Elisa Tramontin, La nave di Teseo, pp.226, € 20,00) Pilar Quintana descrive la crescita della piccola Claudia come un lungo, progressivo stato di oblio: il disegno parte chiaro in ogni sua parte, poi si va cancellando con lentezza implacabile.

Chiusa in un universo ristretto, famigliare, il paradigmatico contesto colombiano di Pilar Quintana  ha fatto della anaffettività una tormentosa abitudine, che si trasmette attraverso le generazioni. «La mamma era sempre in casa. Non voleva essere come mia nonna. Me lo disse per tutta la vita. La nonna dormiva fino a metà mattina e la mamma andava a scuola senza vederla. […] Una volta, al circolo, sentì una signora chiedere alla nonna perché non aveva avuto altri figli. “Ah, cara mia,” rispose lei, “se avessi potuto farne a meno, non avrei avuto neanche questa.”» Come già nella Cagna, torna anche qui  il tema della mala madre, figura molto presente nelle scrittrici latinoamericane degli ultimi anni (dalla colombiana Margarita García Robayo in Tiempo muerto, all’argentina Claudia Piñeiro in  Piccoli colpi di fortuna, all’equatoriana Mónica Ojeda nel romanzo Mandibula, alla messicana Valeria Luiselli in Volti nella folla, a Patricia Laurent Kullick in  La giganta, a Brenda Navarro in Case vuote).

Nel torpore dei pomeriggi tutti uguali, le pagine delle riviste patinate sfogliate ossessivamente dalla madre si avvolgono come un rampicante parassita alla giovane vita della piccola Claudia: «La mamma cominciò a rimanere a letto dalla mattina alla sera. Tutto il giorno in pigiama e senza darsi una sistemata. La scatola dei fazzoletti accanto. Il naso e gli occhi arrossati. Le tende chiuse. A volte senza rivista, senza leggere né fare nulla, acciambellata come un gatto.» Così consuma la sua  tormentosa la bambina, nella speranza di una complicità che non si realizzerà mai. «La mamma era in piedi in cima alle scale. sembrava una pazza. Piangeva, scalza, con la camicia da notte bianca e i capelli in disordine sulla faccia. Una pazza o un’apparizione […]».

Con più distacco e discrezione, quasi in una saggia indifferenza, la presenza del padre scandisce il tempo, ma pericolosi e irrevocabili, nel microcosmo famigliare, si aprono ogni tanto degli abissi: di silenzio, di solitudine, di tormento, di maternità disattese, di trascurata crescita, di amore sprecato.

Lenta e precisa, con una scrittura attentissima, Pilar Quintana, restituisce al lettore gli strappi della quotidianità, i momenti in cui la necessaria tensione si stacca dalla superficiale delle cose e, ormai logorata, si apre in voragini, spazi per tradimenti notturni, pigri, scanditi e giustificati dalla noia e dalle vite distanti, ammirate sui rotocalchi. Ancora una volta, sebbene circoscritta  in un giardino domestico, la forza selvaggia della selva avrà la meglio, pronta a inghiottire o a soffocare, seducente nella sua sacrale naturalezza, ma pericolosa, spietata, ostile. «Le scale nude, ai miei piedi, con le assi e i tubi di acciaio nero, mi apparvero più abissali del precipizio in montagna, più ripide e terribili. La giungla, lì sotto, rigogliosa, con le piante verdi e floride. Il vento del pomeriggio entrò dalle finestre, la giungla si ridestò dalla sua quiete e nell’appartamento, malgrado la mamma, fu una festa».

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