Tra il mare e la selva, in una voragine della storia e dell’animo, che si fa paurosa con il temporale e asfittica con il sole, la scrittrice colombiana Pilar Quintana mette in scena il suo romanzo La Cagna (traduzione di Pino Cacucci, La nave di Teseo, pp.110, € 16,50) un dramma della solitudine e della dimenticanza, della maternità negata, dell’assoluta impossibilità di amare senza il timore di una punizione violenta. Vi si ritrovano esistenze di frontiera in fuga dal dolore, tormentate da una natura indifferente e ostile che le logora fino a trasformarle profondamente, annegandole nel pozzo oscuro della disperazione. «Sopra di lei, le chiome degli alberi si univano e, sotto, le radici si intrecciavano tra loro. I piedi affondavano nel tappeto di foglie morte e nel fango, e a un certo punto aveva avuto l’impressione che il respiro che sentiva non fosse il suo ma quello della selva, ed era lei che stava affogando in un mare verde pieno di piante e formiche. Voleva fuggire, perdersi, non dover dire niente a nessuno e che la selva la inghiottisse».

Richiami letterari

Nel 1918, tra le pagine del suo «Ritorno alla Selva», Horacio Quiroga, considerato il fondatore del racconto moderno in lingua spagnola, scriveva: «Tra la mia percezione e il paesaggio circostante si frapponeva quel velo impenetrabile con il quale la natura vergine protegge la propria aggressiva nudità». Nella Colombia degli sconfinati orizzonti del Pacifico, Quintana fa muovere personaggi che ricordano altre latitudini e altre pagine di letteratura latinoamericana: non solo le ossessive selve di Quiroga, nella regione argentina di Misiones, ma anche la sperduta Patagonia cilena di Francisco Coloane.

La protagonista del romanzo, Damaris, vive in un mondo fatto di punizioni e solitudini, popolato di insetti, serpenti, pipistrelli-vampiro, avvoltoi, nel quale sembra impossibile muoversi senza causare sofferenze o essere traditi e umiliati. Persino la cagna, che ha protetto da morte certa quando era piccola e cresciuto come la figlia che non ha mai avuto, si dimostrerà parte integrante di quell’universo appiccicoso e infido che non sembra lasciare scampo.

Il tempo, nella selva, è come una clessidra di sabbia nera, zuppa di marea, satura di umidità e di elementi ostili: la scogliera, la vegetazione, gli animali che la popolano, sono tutte figure di un museo della disperazione naturale, del pericolo, della morte. Anche le soleggiate magnificenze del pacifico, gli affacci di case a picco sul mare, ormai abbandonate da famiglie facoltose sconfitte dalla tristezza, figurano come effimere illusioni che saranno presto divorate dall’ombra: la speranza si fa tristezza, poi rancore, e infine cattiveria.

Il buio interiore allora si sgretola in mille elementi traversati da una luce implacabile: tutto è rabbia, rassegnazione, intorpidimento dei sensi, e la selva domina come una madre che stringe a sé le sue creature fino a soffocarle: «Si addormentò subito, ma immersa in un sonno teso che non le concesse alcun riposo. Sognava rumori e ombre, di essere sveglia sul letto, di non potersi muovere, che qualcosa la aggrediva, che la selva si era infilata nella capanna e la stava avvolgendo, la ricopriva di muffa e le assordava le orecchie con i rumori insopportabili delle bestiacce selvatiche, finché lei stessa si tramutava in selva, in un tronco, in muschio».

Personaggi imbrigliati

Un velo impenetrabile circonda e soffoca la vita dei personaggi della Cagna dando l’impressione che si muovano in una prigione fatta di vorticose selve, promontori, spiagge nere, che si mostrano quasi sempre nel loro lato più minaccioso; anche per il compagno di Damaris, Rogelio, che deve attraversare quegli spazi per raggiungere «Viento y marea», il peschereccio sul quale affronta i mutevoli umori dell’Oceano Pacifico, l’afflizione è quotidiana.

La cagna è una figurazione dell’amore negato, della irriconoscenza, della assoluta degenerazione, al limite tra la morte naturale e l’assassinio, ma anche dell’impossibilità per l’uomo di adeguarsi al succedersi indifferente e ostile dei ritmi naturali. E il tema principale dell’opera è non solo l’impossibilità di diventare madre ma anche lo sguardo sulle storture di chi, pur avendo partorito, è incapace di assolvere al proprio impegno d’amore, cura, costanza e contamina di abbandono, distrazione, violenza ciò che Damaris ha sempre desiderato.

La mala madre è stata negli ultimi anni una figura molto presente nelle scrittrici latinoamericane: nella messicana Valeria Luiselli, Volti nella folla (2011), in Patricia Laurent Kullick, La giganta (2015), in Brenda Navarro, Case vuote (2017), nella colombiana Margarita García Robayo, Tiempo muerto (2017), nell’argentina Claudia Piñeiro, Piccoli colpi di fortuna (2015), e nell’equatoriana Mónica Ojeda con il suo romanzo Mandibula (2018).

Strutturato in tre blocchi principali corrispondenti alla speranza, alla rassegnazione e alla cattiveria, il romanzo di Quintana comincia con il descrivere i vari trattamenti magico-sciamanici tentati per favorire l’irraggiungibile fertilità. Damaris e Rogelio si sottopongono a numerose ‘terapie’, fino a sfiancarsi, e a ritirarsi esausti e rassegnati nel loro vivere silenzioso e nervosamente violento.

Personaggi, animali e luoghi della Cagna sono dominati da un mare traditore, seducente e atroce, che restituisce corpi mangiati dai pesci, con le orbite vuote («Il mare piatto sembrava un’infinita piscina, ma Damaris non si lasciava ingannare. Sapeva bene che era sempre la stessa belva malvagia che inghiottiva e risputava la gente».) e sembra un corrotto liquido amniotico che insudicia le esistenze. È il riflesso dì un disfacimento che sembra irradiarsi nella selva e nella pioggia, una sorta di sipario fitto che sostituisce il mondo reale, in un ticchettio ossessivo sui tetti di lamiera, con l’illusione di pulire e rinfrescare, ma che genera muschio, insetti e un’umidità infernale.

Con una prosa essenziale e precisa, Pilar Quintana incide la figura di una donna che si muove sul confine marino, vegetale, atmosferico di un’esistenza sconfitta, retta da una speranza intermittente, una flebile fiamma che con lentezza si spegne: «un velo di tristezza avvolse Damaris e tutto ciò che faceva – alzarsi dal letto, preparare da mangiare, masticare il cibo – le costava una gran fatica. Aveva l’impressione che la vita fosse come l’insenatura, a lei era toccato attraversarla a piedi nella fanghiglia e con l’acqua fino alla cintola, da sola, assolutamente sola, rinchiusa dentro un corpo che non le dava figli e serviva soltanto a rompere le cose».