Da inizio pandemia piatti e bicchieri monouso in cellulosa vengono impiegati sempre più frequentemente in sostituzione della plastica. La diffusione ha destato l’attenzione degli scienziati perché nella maggior parte dei casi questi prodotti vengono realizzati con sostanze chimiche perfluoroalchiliche, note come pfas e potenzialmente dannose per la salute. Sono migliaia e, pur non essendo presenti in natura, vengono impiegate dagli anni ’40 in poi in numerosi ambiti: dal tessile alla cosmesi fino all’alimentare. La Fondazione per gli alimenti e la nutrizione, Fosan, si sta occupando delle conseguenze sulla salute dei pfas quando usati come impermeabilizzanti nei contenitori per alimenti.

L’alternativa alla plastica con polpa di cellulosa e carta non è ancora così «bio» come sembra. Per garantire impermeabilità all’acqua e ai grassi e resistenza, i materiali compostabili vengono realizzati con pfas. Tra i maggiori produttori di polpa di cellulosa figurano Vietnam e Cina. Non essendo stata ancora approvata in Ue una normativa che limiti l’impiego di queste sostanze chimiche per quanto concerne il settore alimentare, l’importazione dei prodotti fino ad oggi non è soggetta a controlli specifici. La denuncia partita dalla Fosan pone in luce la necessità di una transizione ecologica vera che rivoluzioni anche il mondo dei “moca”, ovvero dei materiali a contatto con gli alimenti.

CON IL DECRETO LEGISLATIVO numero 196 del 2021 si è data attuazione alla direttiva europea sulla riduzione dell’incidenza di determinati prodotti di plastica sull’ambiente. È cresciuto così l’impiego di stoviglie monouso, specie in ambito scolastico. Anche la ristorazione commerciale se ne serve: infatti, recenti studi realizzati negli Stati Uniti hanno evidenziato «l’incremento di pfas plasmatico in individui che consumano regolarmente fast food confezionato». I più esposti a queste sostanze chimiche – secondo l’Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare – sarebbero i minori.

A richiedere una valutazione sui rischi per la salute umana legati alla presenza di sostanze perfluoroalchiliche negli alimenti è stata la Commissione europea. Nel settembre 2020 l’Efsa ha stabilito una nuova soglia di sicurezza per i principali pfas che si accumulano nell’organismo, ovvero l’acido perfluoroottanoico (pfoa), il perfluoroottano sulfonato (pfos), l’acido perfluorononanoico (pfna), l’acido perfluoroesano sulfonico (pfhxs). Il limite settimanale di assunzione di pfas di 4,4 nanogrammi per chilogrammo di massa corporea, fissato dall’ente, è al momento una raccomandazione scientifica che non trova corrispondenza in ambito normativo. Tra gli alimenti che hanno manifestato una maggiore esposizione a queste sostanze chimiche vi sono il pesce, la frutta e i prodotti a base di frutta, le uova e i suoi derivati.

LA CONTAMINAZIONE DEGLI ALIMENTI è da attribuirsi in prima battuta alla contaminazione delle matrici ambientali. Con l’incremento dell’uso di stoviglie in polpa di cellulosa prodotta con pfas, si pone un ulteriore problema. Ciò – secondo la Fosan – non rappresenta soltanto un possibile rischio per gli alimenti ma anche per l’ambiente. I materiali organici vengono infatti riciclati in impianti di compostaggio. La conseguenza è «il bioaccumulo di pfas nei tessuti vegetali». Per questo tra le proposte della Fondazione c’è la necessità di rivalutare «le norme tecniche che regolamentano il giudizio di compostabilità».

L’inquinamento da pfas è stato già ampiamente riscontrato nei bacini acquiferi in corrispondenza sia delle aree dove sorgono le industrie che li producono sia quelle che li impiegano. «I pfas – spiega l’Echa, l’Agenzia europea per le sostanze chimiche – vengono rilasciati nell’ambiente attraverso la produzione industriale non direttamente collegata alla produzione di alimenti e attraverso l’uso e lo smaltimento di prodotti contenenti pfas. Tuttavia, come spesso accade con gli inquinanti persistenti, finiscono negli alimenti. I principali responsabili dell’esposizione alimentare umana sono alcuni ortaggi, ma anche l’acqua potabile è una fonte importante». In Ue alcuni paesi hanno adottato delle restrizioni. Con la Convenzione di Stoccolma in ambito comunitario sono state poste limitazioni sugli inquinanti organici persistenti. Ma, nonostante il largo impiego industriale ancora in corso, l’uso non è regolamentato in modo puntuale.

I PFAS VENGONO USATI IN MODO TRASVERSALE: li si trova nei prodotti per la pulizia dei tappeti e pavimenti, nei detersivi, nei trattamenti impermeabilizzanti, nei coloranti di pelli e tessuti, all’interno dei pesticidi e degli insetticidi, nei prodotti per la cromatura dei metalli, nelle schiume antincendio, nelle pellicole fotografiche, in alcuni cosmetici, nello shampoo e nei dentifrici. Ad occuparsi della pericolosità di queste sostanze per la salute umana c’è in prima linea da anni l’Isde, l’associazione medici per l’ambiente. «Particolare criticità – spiega – riveste l’uso di pfas e altri interferenti endocrini nei contenitori per alimenti, dai quali possono essere facilmente rilasciati ai cibi in essi contenuti.

Da evitare sono in particolare i sacchetti per popcorn utilizzati nel forno a microonde. Anche la carta da forno non deve essere usata a temperature e per tempi superiori a quelli indicati dal produttore. Le applicazioni commerciali più note sono probabilmente il rivestimento antiaderente per il pentolame da cucina». Il largo consumo è dovuto alle proprietà di queste sostanze in termini di resistenza e stabilità chimica e termica. In Italia al momento si attende l’approvazione del disegno di legge 2392 che stabilisce «Misure urgenti per la riduzione dell’inquinamento da pfas e per il miglioramento della qualità delle acque destinate al consumo umano». Non è invece ancora oggetto di attenzione da parte del legislatore, sia a livello nazionale che europeo, l’uso di pfas per la produzione di stoviglie in polpa di cellulosa.