Piattaforme petrolifere e vite segnate dalla fatica
INCONTRI Parla Anja Kampmann sul suo «Dove arrivano le acque», edito da Keller. Oggi alle 18.30 l’autrice sarà ospite di «Voci nuove in dialogo» al Goethe-Institut di Roma
INCONTRI Parla Anja Kampmann sul suo «Dove arrivano le acque», edito da Keller. Oggi alle 18.30 l’autrice sarà ospite di «Voci nuove in dialogo» al Goethe-Institut di Roma
«Una volta c’era il topos della libertà dei mari, ma anche questo è stato distrutto dall’industria delle trivellazioni petrolifere»: Anja Kampmann, autrice tedesca, ha esordito con il romanzo Dove arrivano le acque (Keller, pp. 364, euro 18,50, traduzione di Franco Filice). È la storia di Waclaw, operaio sulle piattaforme petrolifere, che a seguito della morte dell’amato compagno Matyás intraprende un lungo viaggio alla ricerca di un luogo che possa essere casa.
Perché ha scelto di raccontare questa storia per il suo primo romanzo? C’è un’urgenza politica?
All’inizio del romanzo Waclaw lavora già sulle piattaforme petrolifere da dodici anni: anche se la sua vita è molto lontana dalla nostra, i sogni che lui e tanti altri uomini hanno quando partono per fare quel mestiere sono condivisi da molti di noi. Desiderano la libertà, un tenore di vita migliore, sperimentare qualcosa di diverso. Anche le regole da seguire non sono così strane: bisogna essere flessibili, rinunciare a molto, come accade in tante altre esperienze lavorative. È stato davvero emozionante per me immergermi nel mondo delle trivellazioni, parlare con i lavoratori, ma anche chiedere loro: qual è il prezzo da pagare per questa presunta libertà? E sì, ovviamente è anche una questione politica.
Il suo personaggio principale, come è già stato scritto, ricorda il mito di Ulisse. Che tipo di Ulisse è Waclaw?
Ulisse non ha avuto un ruolo importante nella scrittura del romanzo. Certo, ho viaggiato molto e ho sviluppato una sensibilità per tutte le vite “invisibili”, che rendono possibili i nostri spostamenti e i nostri soggiorni in albergo: si tratta di intere classi sociali, compresi quei lavoratori delle trivellazioni petrolifere che vengono mandati in giro per il mondo dalle agenzie interinali e sono completamente invisibili. Forse la domanda da porsi è: perché oggi Ulisse è diventato invisibile?
Il libro racconta il viaggio di Waclaw verso casa. Nel tragitto il protagonista perde tanto e solo alla fine ritrova una sorta di libertà. La libertà si connota come assenza?
La libertà è un tema enorme in questo romanzo. Nel mondo delle trivellazioni petrolifere ci si trova rapidamente di fronte a una necessità di costante superamento: bisogna lavorare ancora di più, ancora più velocemente, in aree di produzione sempre più profonde e remote. Se si cerca di definire la libertà come un «sempre di più», forse si può comprendere ciò che prova Waclaw: tutti quei luoghi esotici, i soldi, le droghe, la vita di cui ha goduto poi non contano più. Per me, la libertà ha a che fare con la scelta di ciò che è importante nella mia vita, di come voglio darle forma. Il personaggio di Milena, la fidanzata di Waclaw, ha questa idea di una «Königsberg interiore»: invece di raccogliere sempre più impressioni all’esterno, ricerca una ricchezza spirituale, come Immanuel Kant che non ha mai lasciato la sua città.
Una volta c’era il topos della «libertà dei mari», ma anche questo è stato distrutto dall’industria delle trivellazioni petrolifere.
La storia inizia con una morte: Matyás è un fantasma, è presente, ma non c’è. Perché i fantasmi sono sempre così vivi in letteratura e nelle nostre vite? È la persona più vicina a Waclaw, ha condiviso tutto con lui e, anche se è morto in un incidente, è ancora presente. Fa parte del mondo interiore di Waclaw e rinunciare a lui significherebbe ammettere la propria solitudine. Di recente ho letto in un libro di Julian Barnes (Livelli di vita, Einaudi, 2013, ndr) che dentro di sé parla ancora con la moglie defunta: mi ha commosso molto. Per Waclaw, la presenza di Matyás dava un senso alla vita sulle piattaforme: con lui tutto aveva cominciato a brillare. Questo è ciò che l’amore può fare.
Waclaw è sempre stanco, come lo sono i suoi compagni di lavoro, come lo era suo padre che lavorava in miniera. Si parla spesso di fonti di energia, ma nel discorso pubblico non c’è posto per quella umana.
In effetti ci allarmiamo quando leggiamo che fonti energetiche come il carbone, il petrolio o il gas si stanno esaurendo. Il padre di Waclaw estraeva carbone nella zona della Ruhr, un lavoro duro e faticosissimo. Aveva origini polacche e non si sentiva a suo agio coi suoi compagni tedeschi in miniera. Suo figlio si sposta in giro per il mondo a estrarre petrolio, ma anche per lui la vera domanda quando improvvisamente non può più lavorare è: dov’è casa?
In questo passaggio generazionale per me si vede chiaramente uno stravolgimento della società: il lavoro in miniera si svolgeva all’interno di una comunità, che aveva le sue abitudini, i suoi tempi, dei connotati a volte molto politici. Lì le persone si conoscevano e si prendevano cura l’una dell’altra. Quella di Waclaw, invece, è una storia di solitudine assoluta, che nessuno racconterebbe se non fosse per questo libro: è un uomo senza interlocutori, senza la consuetudine della vicinanza, e già questo è difficile da sopportare. La sua stanchezza deriva anche dalla nostalgia, perché quasi tutto ciò che desidera ha a che fare con il passato.
* Oggi alle 18.30 Kampmann parteciperà a «Voci nuove in dialogo», progetto dell’Istituto Italiano di Cultura di Berlino e del Goethe-Institut di Roma, parlando del suo esordio. Con lei Laura Marzi che parlerà del suo «La materia alternativa». Modera Maria Gazzetti.
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