Petromonarchie nel panico per i riflessi dell’attacco all’Iran. Netanyahu frena
Guerra in Medio oriente Ritarda la rappresaglia israeliana al lancio di missili del primo ottobre. Teheran potrebbe rispondere chiudendo lo Stretto di Hormuz e attaccando i siti petroliferi dei paesi del Golfo alleati di Usa e amici di Israele
Guerra in Medio oriente Ritarda la rappresaglia israeliana al lancio di missili del primo ottobre. Teheran potrebbe rispondere chiudendo lo Stretto di Hormuz e attaccando i siti petroliferi dei paesi del Golfo alleati di Usa e amici di Israele
Azzardare previsioni sarebbe a dir poco imprudente, l’attacco israeliano all’Iran potrebbe scattare nelle prossime ore. Eppure, non è passato inosservato che sono passate quasi due settimane da quando l’Iran ha lanciato 181 missili balistici contro Israele – per vendicare l’assassinio di due importanti alleati nella regione: il capo di Hamas, Ismail Haniyeh, e il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah – e Israele non ha ancora fatto decollare i suoi cacciabombardieri verso Teheran. Il premier Netanyahu e vari esponenti del suo governo (e pure dell’opposizione) hanno ripetuto che l’obiettivo è dare un «Nuovo ordine» al Medio oriente (con un Israele egemone) e che l’Iran sarà severamente punito. Non hanno escluso persino la distruzione dei siti nucleari iraniani. Ma ora Netanyahu prende tempo mentre a Gaza Hamas non pare affatto «sconfitto» dopo un anno di attacchi israeliani – ieri ha lanciato due razzi verso Ashkelon – e Hezbollah cerca di trasformare in una guerra di logoramento lo scontro contro l’esercito israeliano nel Libano del sud e non cessa di sparare razzi verso l’Alta Galilea, Acri e Haifa.
L’ultima riunione notturna del gabinetto di sicurezza israeliano giovedì sera si è chiusa senza il voto sul piano di attacco all’Iran. Ci sarebbero stati accesi «scambi di opinione» tra Netanyahu con il ministro della Difesa Yoav Gallant sugli obiettivi dell’offensiva contro Teheran. A rallentare Netanyahu più di ogni altra cosa è stata la mancanza di chiarezza che ha avuto durante la conversazione telefonica di mercoledì con l’alleato Joe Biden al quale non ha garantito al 100% che Israele non colpirà le centrali atomiche iraniane. Poco trasparenza che ha scatenato il panico tra i petromonarchi del Golfo. Alcuni di loro hanno firmato trattati di pace con Israele nel 2020 (Emirati e Bahrain) altri, i sauditi, fino a un anno fa venivano dati a un passo dalla normalizzazione con Tel Aviv. Ora fanno i conti con una probabile ritorsione di Teheran sui loro impianti di estrazione del greggio se Netanyahu mettesse davvero in atto le sue minacce. E chiedono a Biden non protezione dalla rappresaglia iraniana contro amici e alleati di Israele e Stati uniti nella regione, ma di intervenire per contenere Netanyahu e il suo governo di estrema destra.
La stampa araba scrive che, incontrando a metà settimana in Arabia saudita il principe ereditario Mohammed bin Salman, il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi ha accusato Israele di trascinare la regione in una catastrofe e, più di tutto, ha messo in chiaro che Teheran non avrà riguardi per i paesi che favoriranno l’attacco all’Iran, anche solo autorizzando il sorvolo del loro territorio da parte dei cacciabombardieri israeliani. Non è irrilevante che a pronunciare questa minaccia sia stato Araghchi, un pragmatico scelto dal nuovo capo dello Stato Masoud Pezeshkian perché è stato tra architetti dell’accordo nucleare del 2015 e quindi più incline a negoziare con l’Occidente una nuova intesa. Ora, di fronte a un Medio oriente in fiamme, cambia tutto e Teheran segnala che potrebbe rivedere la sua dottrina e dotarsi di bombe atomiche, specie se Netanyahu realizzerà il suo sogno di distruggere i siti nucleari iraniani. E non solo quello.
L’Iran, riferiva ieri il quotidiano saudita Al Sharq al Awsat, avrebbe fatto sapere a Tel Aviv che, se i raid in cantiere fossero contenuti, potrebbe passarci sopra e mettere fine alla spirale di attacchi e rappresaglie in corso da mesi. Da parte loro gli Usa, sotto pressione araba, starebbero spiegando all’alleato israeliano che il 30% del greggio mondiale e il 20% dei prodotti petroliferi passano attraverso il Golfo e che tra le prime cose che l’Iran farà dopo aver subito un attacco ai suoi pozzi e raffinerie di petrolio, sarà bloccare lo stretto di Hormuz. Un passo scontato per un paese che produce 2,5 milioni di barili di petrolio al giorno e ne vende una media di 1,4 milioni alla Cina incassando dollari importanti per le sue casse vuote. Senza contare i riflessi dell’attacco israeliano sul mercato mondiale, dove inevitabilmente il prezzo del petrolio salirà alle stelle. Già ora, con gli attacchi al traffico commerciale nel Mar Rosso da parte dei guerriglieri Houthi yemeniti, il costo del barile è salito di 10 dollari. L’aumento dei costi di trasporto inoltre spingerà in alto i prezzi a livello mondiale. I motivi per indurre Netanyahu a frenare i suoi piani non mancano.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento