La catastrofica tracotanza del re Serse
Le tragedie greche sono testi particolari, e delicati: lo si vede quando vengono manipolate da regie improprie, con messe in scena ingessate e archeologiche, oppure stravolgenti e demolitrici. Ottima difesa contro gli eccessi è quindi accostare direttamente i testi, con le necessarie mediazioni: ossia la traduzione e i paratesti di introduzione e commento, che oggi sono irrinunciabili. Fra le tragedie conservate, I Persiani di Eschilo hanno una posizione defilata, meno esposta a condizionamenti esterni, rispetto a iper-sollecitate Antigoni o Medee. Il dramma si ambienta al tempo della spedizione di Serse contro la Grecia (480 a.C.), e immagina l’impatto del suo fallimento presso la corte persiana. Vi è poca azione: si inizia dal timore per la sorte dell’invincibile armata partita verso occidente, finché un messaggero reca notizia della sconfitta a Salamina: ne consegue lo sgomento, quindi la presa di coscienza della rovina e della colpa commessa. Chiude il lamento sull’infranta grandezza dell’Asia.
Destinato al pubblico ateniese, il testo non pone al centro la chiave patriottica, ma piuttosto temi come il pericolo della tracotanza umana o l’imperscrutabile volontà divina. Se ne desume un doloroso insegnamento, che l’apparizione del defunto re Dario enuncia ai personaggi e agli spettatori: «i cumuli di cadaveri, sino alla terza generazione, muti diranno agli occhi dei mortali che non deve, chi è nato uomo, nell’eccesso inorgoglire, ché tracotanza, nel fiorire, genera una spiga di accecamento, da cui proviene messe di solo pianto» (vv. 817-22). Il testo, che fu probabilmente innovativo per il tempo suo, e oggi appare come un archetipo del moderno «orientalismo», è scritto nello stile solenne e talora arduo proprio di Eschilo: serve dunque mano sicura per renderne in traduzione gli effetti di stile, suggerire i differenti snodi tematici, porre le questioni centrali.
Il pubblico italiano dispone di varie edizioni recenti (Centanni, Ferrari, Ieranò) e di interpretazioni importanti (Di Benedetto, Paduano): ma molti elementi nuovi e preziosi stanno nella proposta di Didier Marcotte (Eschyle, Les Perses, a cura di D. M., Le Livre de Poche, pp. 320, euro 8,90). Destinata a lettori non specialisti, essa deriva però da una pratica didattica e tiene insieme la filologia (compresi i problemi testuali) e la critica. La traduzione evidenzia gli strumenti linguistici dell’autore antico: valorizza le novità espressive e lessicali, si impegna a rendere le ardite metafore e le creazioni lessicali (talora rimaste un unicum in greco). Ricrea, per quanto possibile, il senso ritmico dell’originale (come negli anapesti d’esordio; «Voici ceux qu’entre les Perses en route/ pour la terre de Grèce on appelle les Forces fidèles/ et du palais opulent et comblé /d’or les gardiens, que pour leur dignité/ sire le roi Xerxés lui-même,/ né de Darios/ a choisis pur veiller sur la place».
La premessa è sobria e informativa, e perciò efficace nell’evidenziare snodi centrali: il testo di Eschilo rilegge un evento recente, narrandolo come lo scontro tra due forze molto diseguali. Lo fa con economia di mezzi drammatici, per porre in scena «l’histoire mémorable d’un renversement (…) exemplaire, dont il fallait comprendre la méchanique». Giacché la catastrofe che prende forma per la potenza persiana si rivela nella «décomposition irréversibile du language», che sostituisce nel finale la solennità ieratica con una sintassi disarticolata in modi estremi, ridotta a puro lamento (Vittorio Alfieri diceva che si ripete lamentosamente un solo concetto: «Piangete!»). Il commento è ampio (cinquanta pagine), ma molte questioni generali sono trattate a parte in alcuni «dossier» integrativi (cento pagine) sul rapporto tra il testo e la politica ateniese, sull’immagine della Persia, eccetera.
Per chiarezza e completezza, queste sezioni sono strumenti davvero utili. Basti un esempio. La tragedia si estende per circa 1000 versi. Comincia con l’ingresso del coro, formato dai vecchi dignitari, che esegue un lungo cantico (150 versi), dove compare un lunghissimo elenco dei comandanti persiani partiti dall’Asia per andare in Grecia. Anche altrove il testo propone lunghe serie di nomi: sembrano liste di eroi, ma di fatto sono liste di morti. Queste sequenze suonano esotiche («Xanthès, et Ankharès d’Aria / et Diaïxis, et Arsakès, / seigneurs des escadrons, / et Kegdadatas et Lythimnas / et Tolmos, insatiable de sa javeline») e rappresentano una «poétique du catalogue» che richiama la «vertigine della lista» di cui parlò Umberto Eco (2009). Quegli elenchi suggeriscono la dimensione innumerabile dell’esercito perduto, e l’incommensurabilità è un aspetto dell’immagine che la cultura greca ebbe del mondo persiano. Nei Persiani, in effetti, compaiono numerosi elementi iranici.
L’impero è caratterizzato, di contro all’ordine ardimentoso dei greci, come un organismo unitario e potente, ma per lo più evocato come una «multitude sans contrôle», poi trascinata a rovina dall’orgoglio del giovane Serse: manca in Eschilo il topos, molto ricorrente, dell’esercito dove si parlano molte, ossia troppe, lingue. Quelle liste di nomi e luoghi esotici richiedono però anche di essere ricondotte alla competenza dello spettatore antico. Esse parlavano, dunque, a chi ne conosceva di simili dall’epica (il catalogo delle navi nell’Iliade) e dalle cerimonie ateniesi per i caduti: e per certo smentiscono la sentenza di Carducci, per cui «l’enumerazione, chiunque la faccia, non sarà mai poesia». Il testo dei Persiani abbonda di dettagli forse non veri, ma ben verisimili, «si on considère que les auditeurs d’Eschyle… avaient pris part aux évenements de 480/79 ou en avaient été les témoins directs». E seppure i persiani definiscano sé stessi «barbari», adottando il punto di vista greco, il lettore coglie «un coloris oriental soutenu».
Di simili oscillazioni è fatta questa tragedia, che accoglie gli stereotipi dell’oriente ricco d’oro, «molle» di lusso imbelle, e che evoca la democrazia ateniese attraverso le domande della regina persiana, incapace di comprendere come la remotissima città greca, guidata da individui che non sono sudditi di alcun re, possa armare un esercito capace di mettere in difficoltà e sconfiggere i persiani. Il testo, in effetti, chiama in causa anche la storia: è la fonte più antica superstite sulle guerre persiane, ma il punto di vista è quello di un drammaturgo ateniese, interessato al rapporto uomo/dio o agli esiti poetici della geografia del lontano. Fittizia, ma funzionale all’impianto etico, è la contrapposizione tra il regno passato del saggio re Dario e l’avventata, tracotante giovinezza di Serse: nella realtà entrambi sconfitti dai greci, né responsabile, il secondo, di alcuna crisi irreversibile della Persia. La spedizione del 480 non era parte di una «guerra totale», sì di una spinta aggressiva del mondo achemienide verso l’Occidente. L’esito dello scontro ristrutturò i rapporti fra la Grecia e il potente vicino (destinato a durare altri centocinquant’anni): ne venne un «nuovo ordine» in cui il dominio dell’Asia non si sarebbe esteso all’Europa.
Che significa dunque questa tragedia? Il dibattito è già antico: già nelle Rane di Aristofane (405 a.C.) il personaggio di Eschilo s’impegna a spiegare come il suo dramma, istruttivo e morale, insegni «a vincere sempre i nemici». Una tragedia di sconfitta può farlo se il pubblico comprende che la più grande prosperità può incorrere nella rovina inviata dal cielo, punitrice di chi, ignaro, valichi i limiti imposti all’uomo: anche Serse solo troppo tardi comprende di aver errato, accecato di tracotanza. Anche questo tema è stato variamente ripensato nel tempo: giacché «chaque époque a eu sa lecture particulière» dei Persiani: e la nostra pure ha conosciuto, e di nuovo conoscerà, vicende di imprevedibili crolli di eserciti che parevano vittoriosamente destinati a «guerre distruttrici di fortezze, furori di lotte tra carri e rovinose distruzioni di città» (vv. 105-7).
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