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Peter Brooks, l’etica del sospetto contro le trappole dei testi

Peter Brooks, l’etica del sospetto contro le trappole dei testiPhilip Guston, «Libro», 1971

Critica letteraria Il critico americano mette in guardia dall’abuso di narrazioni, che oggi invadono campi dove vigeva il rigore del dato analitico: «Sedotti dalle storie», per lettori non abbindolabili, da Carocci

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 15 ottobre 2023

«Viviamo immersi nelle narrazioni», osservava Peter Brooks nel 1984 fra le pagine di Trame: «l’istinto narrativo è antico in noi» e non tarda a manifestarsi. Persino i bambini ci chiedono racconti costruiti in base a precise esigenze: «servono un principio, un centro, e soprattutto dei finali». Il fatto è che la narrazione, attraverso i suoi svariati intrecci, riesce ad organizzare i caotici materiali delle nostre vite: li rimette in ordine, li provvede di un significato, li rende degni di interesse. Tanto che i romanzieri non sono i soli a servirsi del racconto: «di recente», concludeva Brooks, «diversi storici hanno fatto ricorso alla narrazione classica», che permette una più completa rappresentazione causale degli eventi.

Pochi si sarebbero immaginati che l’apertura interdisciplinare verso il racconto, nei successivi quarant’anni, avrebbe assunto l’aspetto di una deriva inarrestabile. Nel suo ultimo saggio Sedotti dalle storie (Carocci, pp. 144, € 14,00), Brooks ci parla di un mondo in cui l’istinto narrativo è degenerato in mania. Dall’ambito economico-aziendale alla sfera medica, sociale e politica, non esiste più settore che non sia segnato dal bisogno di raccontare. L’uso della narrazione – lo storytelling – si è convertito in un «abuso» che coinvolge anche campi in precedenza regolati dal rigore del dato analitico. Con l’ulteriore aggravante che il lettore, all’epoca di Trame, figurava come un individuo «fin troppo sofisticato» e capace di misurarsi con le sperimentazioni del romanzo postmoderno. Chi ascolta una storia, al giorno d’oggi, sembra invece disposto a lasciarsi abbindolare dalle fandonie più bizzarre: basta pensare agli assaltatori che nel gennaio del 2021 hanno espugnato il Campidoglio di Washington, persuasi dell’esistenza di un fantomatico complotto elettorale. Ma come scongiurare l’effetto di «narcosi passiva» innescato nel pubblico dalla dilagante «storificazione» della realtà?

La risposta di Brooks, da una parte all’altra del nuovo saggio, è sempre la stessa. Stiamo in guardia: non fidiamoci di soluzioni a buon mercato e di approcci «culturali» che ci spingono a interpretare solo i contenuti o il contesto senza tenere d’occhio le strategie retoriche della narrazione. Recuperiamo, semmai, gli insegnamenti offerti dalla narratologia del secolo scorso – dai formalisti russi al post-strutturalismo francese – per disporre di una strumentazione che ci impedisca di cadere nelle trappole dei testi. L’attitudine più adeguata resta un’«etica del sospetto» che ci impone di procedere con circospezione davanti a qualsiasi storia, senza mai dimenticare la natura infida e bifronte del mezzo narrativo. Lo studio della fiction, sotto questo aspetto, è il terreno ideale per comprendere vizi e virtù delle pratiche affabulatorie. Quando infatti varchiamo la soglia di un romanzo, ci ritroviamo a contatto con una macchina delle meraviglie, dove ogni prodigio illusionistico nasconde un’insidiosa contropartita.

Nessun dubbio, per Brooks, che i romanzi abbiano il potere di arricchire e completare le nostre limitate prospettive sull’esistenza. E non soltanto perché la finzione romanzesca, come già notava Walter Benjamin, può offrirci una «conoscenza della morte» di cui non riusciamo a disporre finché rimaniamo in vita. La principale fonte di fascinazione di un romanzo andrebbe ricercata nello sguardo del narratore e dei personaggi, che funzionano come formidabili dispositivi ottici congegnati per farci osservare la vita «con occhi diversi» dai nostri. A differenza degli storici, i romanzieri – diceva Dickens in Barnaby Rudge – «hanno il privilegio di entrare dove vogliono», persino nella coscienza (o nel cuore) delle loro creature. Ed è per questo che le finzioni, secondo Brooks, non ci assicurano una fuga dalla realtà, bensì un ingresso esclusivo verso il suo «interno».

Anche se poi nessuno ci garantisce che l’immersione romanzesca riesca davvero a risolvere i misteri della psiche o dell’esistenza. Esistono infatti racconti di forma «eretica» che si spingono a investigare i territori dell’ignoto solo per confermare la nostra «nescienza». L’obiettivo dell’esplorazione, in questo caso, non è tanto il chiarimento, quanto la problematica rappresentazione dell’universo e dei comportamenti umani nella loro inspiegabile complessità. Brooks, a tale proposito, si sofferma su un romanzo di Charlotte Brontë – Villette – in cui Lucy Snowe, narratrice e protagonista della vicenda, continua a produrre un resoconto quanto mai opaco degli avvenimenti. Per tutta la storia, la voce di Lucy rimanda le spiegazioni in un incessante «gioco a nascondino» e finisce per raggirare con le sue omissioni anche il lettore più reattivo, proprio quando gli promette un racconto aderente ai fatti. La confessione di Lucy, pur animata da ferme intenzioni di veridicità, si propone come un capolavoro di elusione: persino la domanda cruciale del romanzo – «Ma lei chi è veramente, Miss Snowe?» – rimane sepolta dal dubbio.

Non ci si stupisce allora se Brooks, a partire dalle emblematiche dissimulazioni di Villette, si impegna a richiamare l’attenzione sulle tattiche e sul potere dell’«autorialità». Chi racconta può arrivare a manipolare la nostra percezione degli eventi per trascinarci nel vortice di un tranello mistificatorio. E se è vero che la finzione, come affermava Freud, condivide le modalità del gioco o del sogno ad occhi aperti, allora la lettura rischia di trasformarsi in un passatempo pericoloso. L’avvertimento potrà forse ricordarci le requisitorie avanzate a suo tempo e su più versanti contro l’immoralità dei romanzi, ma non risulta del tutto obsoleto in epoca di storytelling. Perché nessuna narrazione – nemmeno la più lineare, secondo Brooks – potrà mai essere considerata del tutto «neutra». Chi l’ha costruita, avvisava anche Poe, ha previsto un «effetto» segreto che dobbiamo a tutti i costi riportare alla luce.

Per evitare la narcosi passiva, non resta dunque che comportarsi come uno scrupoloso detective, pronto a indire una severa istruttoria di controllo sulle operazioni del narratore. Come è venuto a conoscenza degli avvenimenti? E da quale punto di vista li racconta? Possiamo fidarci della sua parola? L’essenziale, per Brooks, è che il lettore non smetta di interrogarsi, tanto sulla fonte dell’informazione, quanto sulla sua prospettiva, che può risultare – come nelle storie di Conrad o di Henry James – del tutto focalizzata e strumentale.

Poco importa poi se i nostri quesiti, come obiettava Forster nelle sue lezioni sul romanzo, sapranno «un po’ troppo di tribunale», oppure richiederanno giustificazioni che uno scrittore di finzioni non è tenuto a fornire. Raccontare e vivere, ribadisce Brooks, in ogni caso non coincidono. Una storia è sempre una riconfigurazione di quanto è accaduto: mai una sua copia esatta. Per evitare nefaste sovrapposizioni, sarà sufficiente ricordare che «l’universo non corrisponde alle nostre storie sull’universo». Anche se queste ultime sono tutto ciò che ci resta.

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