Marta cammina tra la folla con il suo tongo, cappello tipico delle donne aymara. Sulle spalle l’aguayo, tradizionale borsa di stoffa spesso usata per trasportare i neonati, ma che nel suo caso serve a riporre viveri e la Whipala, colorata bandiera di unione dei popoli indigeni. Poi si ferma e inizia a sventolarla tra un fiume di persone che attraversa a piedi il centro di Lima. Al suo fianco Valentina. Anche lei ha nelle mani una bandiera, quella nazionale del Perù, dove il rosso delle bande laterali ha lasciato spazio al nero del lutto.
MARTA È DI ETNIA AYMARA, vive a Ilave, paese della provincia di El Collao, mentre Valentina è quechua di Juliaca. Entrambe vivono nella regione di Puno, al confine con la Bolivia. Sono due delle migliaia di persone provenienti dalle province rurali del Perù che, da oltre due settimane, manifestano in capitale per richiedere la rinuncia della presidente Dina Boluarte, lo scioglimento del Parlamento, elezioni subito e una nuova Costituzione.

«Siamo en pié de lucha perché vogliamo che le nostre richieste vengano accolte – racconta Valentina che preferisce non darci il suo cognome per ragioni di sicurezza – Da sempre le nostre comunità si sentono escluse dal dibattito politico. Eppure, siamo noi contadini a provvedere al cibo per questo Paese. Se a Lima mangiano le patate possono ringraziare noi. Siamo cittadini come gli altri e pretendiamo che la nostra voce sia ascoltata».

La protesta che da settimane infiamma Lima ha preso piede proprio nelle regioni più a sud e periferiche di Cuzco, Puno, Apurimac, Arequipa provate da circa 2 mesi di contestazioni iniziate il 7 dicembre, quando l’ex presidente del partito “marxista-leninista-mariateguista” Perù Libre, Pedro Castillo, ora in carcere, ha provato a sciogliere il Parlamento poco prima che una mozione lo sollevasse dall’incarico per «permanente incapacità morale». A lui è subentrata la sua vice Dina Boluarte, che ha preso le distanza dal predecessore, cercando sostegno nei maggiori partiti di destra, tra cui Fuerza Popular di Keiko Fujimori.

Un voltafaccia vissuto come tradimento da tante persone del sud che hanno votato Castillo e speravano in politiche favorevoli alle comunità rurali. La rabbia è sfociata in proteste di piazza con la richiesta di liberazione dell’ex presidente e dimissioni immediate di Dina Boluarte, che ha risposto con il pugno duro, schierando l’esercito.
«DINA BOLUARTE È UN’ASSASSINA. In questi 2 mesi i militari e la polizia hanno ucciso decine di nostri amici e familiari. Si deve dimettere perché non ci rappresenta», grida Marta che, come Valentina, preferisce non rivelare il cognome. Poi si gira e unisce la sua voce al coro: «Esta democracia ya no es democracia. Dina asesina, el pueblo te repudia…», un grido disperato contro la presidenza di turno, la sesta in 4 anni di instabilità politica, e contro tutto il Parlamento, considerato corrotto e dedito ai propri interessi.

«È la prima volta che noi Aymara e Quechua ci uniamo per portare la lotta a Lima. Vogliamo – spiega Valentina – una nuova costituzione che rispetti i nostri diritti e il nostro territorio».
SONO COMBATTIVI gli Aymara e i Quechua arrivati in città. Come alcuni esponenti di sinistra, richiedono la riforma completa della Costituzione fujimorista del 1993 e, in particolare, del capitolo economico che attualmente riduce il ruolo di controllo dello Stato e promuove l’attrazione di capitale straniero. A oggi le multinazionali, presenti in maniera predominante nelle province del nord e del sud, possono accedere ad agevolazioni fiscali che rendono particolarmente favorevole investire nel Paese. Questo schema neoliberale ha contribuito alla crescita economica del Perù, ma dall’altra ha aumentato le disuguaglianze, accentrando la ricchezza nelle mani di pochi.

Sul sito del Ministero “Energias y Minas” viene sottolineato che «la ricchezza geologica e il quadro giuridico che promuove gli investimenti privati nel Paese, fanno del Perù una delle destinazioni più interessanti del mondo per gli investimenti minerari». Aspetto che ha generato rabbia nei territori quechua e aymara, dove la popolazione è esclusa dalla gestione ambientale ed economica della terra.

«Non possiamo più accettare che le nostre risorse naturali vengano vendute all’estero con il beneplacito degli attuali governanti – commenta Esteban di etnia quechua e abitante della provincia di Lampa, Puno -. L’80% delle entrate derivanti dalla vendita delle nostre risorse, come litio e l’oro, rimangono nelle mani delle multinazionali, mentre noi non abbiamo neppure l’elettricità e l’acqua in casa».
LA CRISI ATTUALE del Perù è un riflesso dello storico conflitto tra centro e periferie, evidente in buona parte dell’America Latina, dove da un lato si trova una ristretta élite oligarchica che si tramanda il potere, i mezzi di produzione, e di fatto il benessere, e dall’altra una tangibile maggioranza che a stento mette insieme pranzo e cena. Situazione che in Perù è stata aggravata dalla pandemia. L’inflazione è alle stelle: un chilo di riso costa più del doppio dell’anno precedente e, secondo l’Istituto nazionale di Statistica, il 44,3% della popolazione rurale e indigena vive in povertà, condizione di numerose persone quechua y aymara che rappresentano il 15,6% della popolazione totale del Perù.

Ben più della metà delle circa 60 persone che hanno perso la vita negli scontri con la polizia durante le manifestazioni sono di origine indigena. «A Juliaca, dove vivo, sono state uccise 26 persone – racconta Margarita Mamani Quispe, rappresentante quechua – e molti stanno morendo per le ferite. Hanno ammazzato anche un ragazzo di 15 anni».
DECINE DI FAMIGLIE stanno piangendo i loro morti soprattutto nella città di Margarita, dove il 9 gennaio i militari hanno ucciso 19 persone in un unico giorno. Un abuso della violenza denunciato dalle organizzazioni internazionali e dal Pubblico ministero del Perù, che ha aperto un’indagine sulla presidente per presunto reato di genocidio.

Il bollettino di guerra risultante da 2 mesi di manifestazioni rimanda agli anni più cupi del conflitto armato interno, tanto che i manifestanti equiparano Dina Boluarte al dittatore Alberto Fujimori, padre di Keiko, condannato a 25 anni di carcere per violazione dei diritti umani, omicidi e rapimenti avvenuti durante gli scontri con Sendero Luminoso.

Di fronte a proteste di cui sembra non vedersi la fine, la strategia attuale della presidenza e del parlamento consiste nel prendere tempo, in un tentativo di palleggiamento delle responsabilità. Dina Boluarte ha richiesto ai deputati di approvare una legge per anticipare le elezioni a ottobre 2023, ma il parlamento non ha trovato un accordo. Dall’altra parte la presidente potrebbe accelerare il processo elettorale rassegnando le dimissioni, una strada che ha deciso fin dall’inizio di non percorrere per timore di essere incriminata, consegnando di fatto il Paese al caos.
IN UNA LIMA ESTIVA, calda come non mai, la gente delle province non intende fare un passo indietro e si arrangia come può per sopravvivere a lunghe giornate distante dalle proprie case e dalle proprie attività lavorative. «È dura, ma resteremo qui fino alle estreme conseguenze. Ce ne andremo solo quando Dina deciderà di dimettersi» dice Marta, mentre prende le sue cose, si avvicina agli altri manifestanti e cerca un riparo per la notte.