È sulla Croisette che Claire Denis ha iniziato il suo cammino di regista, in concorso con l’opera prima Chocolat ispirata al proprio vissuto di ragazzina francese cresciuta in Africa, in Cameroun – una memoria che diventerà segno della sua poetica di immaginario. Era il 1988, da allora ci tornerà diverse volte – con film bellissimi come Trouble Every Day (2001) – e di nuovo quest’anno che l’ha vista due volte protagonista nei festival internazionali; alla Berlinale dove ha presentato Avec amour et acharnement – Orso d’argento – e ora qui, in concorso con Stars at Noon. Ispirato al racconto di Denis Johnson, definito un «thriller romantico», su cui hanno lavorato Lea Mysius (a Cannes anche con un suo film da regista, Le Cinq Diables, alla Quinzaine, ne parleremo nei prossimi giorni) e Andrew Litvack, ritrova molti dei «luoghi poetici» della regista francese come la musica dei Tindersticks e soprattutto quella dimensione quasi «sonnambula» e fuori dal tempo che attraversa le sue storie e i suoi personaggi – pensiamo a film come J’ai pas sommeil (1994) o 35 Rhums (2008).Una giovane giornalista ha scritto qualcosa che non doveva, è intrappolata

LA PROTAGONISTA è una giovane donna (Margaret Quallley, l’autostoppista di C’era una volta a…Hollywood) magrissima, americana, si muove in un paesaggio fantasmatico dominato da militari armati, intrighi e una diffusa paura. Dice di essere una giornalista ma l’editore che pubblica riviste con reportage sui viaggi di lusso non sembra interessato ai suoi articoli in cui parla di persone fatte sparire o ammazzate. Siamo in Nicaragua, potremmo essere ai tempi della dittatura e della guerra civile, le mascherine e le tende per i test ci dicono invece che siamo nei nostri giorni. O è una sovrapposizione temporale lanciata per stordirci? Tutto non è come appare: la ragazza è intrappolata, ha scritto qualcosa che non doveva e le hanno portato via il passaporto, difesa da un ministro e aiutata un po’ da un comandate della polizia – è costretta a fare sesso con entrambi – incontra un inglese (Joe Alwyn) nell’hotel della stampa. È biondo, non fa il giornalista ma l’imprenditore, fanno l’amore per soldi però qualcosa in quell’incontro va oltre i 50 dollari, moneta preziosa mentre quella locale si sta svalutando. Lui sussurra tra sé che forse si è messo in un casino, o già ci sta, la segue anche se è ubriaca, sa molte cose quella ragazza o inventa? Anche lui nasconde qualcosa, ben presto saranno in fuga, uniti visceralmente eppure sempre sul punto di tradirsi o di dimenticarsi, o di venire risucchiati nei propri segreti.

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IN QUESTO INCONTRO di fuggitivi che fa pensare a quei film degli anni Settanta di americani marginali rimasti invischiati in intrighi vari nell’America latina e centrale, stritolati tra poteri locali e la Cia – che non manca anche qui e ha la faccia di Benny Safdie – Denis sposta l’asse dell’immaginario sulle due figure protagoniste, un uomo e una donna, e sui loro desideri risucchiando la narrazione in quei corpi che si cercano, si attraggono, che sembrano vivere l’uno nell’altro sempre sul punto di perdersi fino a odiarsi. A questo respiro si mescolano il caldo, l’attesa, la violenza, il rum, lo stordimento. E i frammenti di realtà dei controlli geopolitici – sempre attuali, se si pensa alla politica di Trump contro il Nicaragua. Non è questo però il focus di Denis, quel mondo vischioso, in cui nulla sembra valere nell’assoluto è la trama appunto di un legame che nasce senza spiegazioni né parole sul passato – di lui sappiamo solo che è sposato: «Balli così con tua moglie?» gli chiede lei – in cui la regista prova a distillare generi e possibili direzioni di cinema. Col rischio spesso di perdersi tra le ellissi e l’accumulo di suspense, e quel sussurro notturno di abbandoni e di inganni, di attrazione e disorientamento emotivo che cerca il suo sguardo e che si stempera nella sua stessa materia.