Claire Denis, cinema senza frontiere dall’Africa allo spazio profondo
Festival La masterclass online della regista di «High Life» e «Chocolat», nell’edizione virtuale di Visions du Reél
Festival La masterclass online della regista di «High Life» e «Chocolat», nell’edizione virtuale di Visions du Reél
All’inizio c’è Jacques Rivette (a cui dedica anche un ritratto, Jacques Rivette, le veilleur, 2005) per quel sentimento di «legittimazione» nel filmare che è riuscito a trasmetterle contro le insicurezze e gli infiniti dubbi. E, ancora prima, Marguerite Duras. «Ha impresso nel cinema francese, e non solo, un segno indimenticabile, film come Camion o Indian Song sono stati per me una rivelazione». Sorride Claire Denis nel riquadro che ci porta dentro la sua casa, libri in lontananza, un telefono silenziato velocemente, la connessione che per qualche istante si fa un po’ incerta. Insieme a lei, in una bella conversazione, ci sono Emilie Bujès, direttrice di Visions du Réel, e Lionel Bauer, tra i commenti che scorrono veloci sullo schermo della diretta qualcuno dice che lì sono le 8,55 del mattino, Montreal, Canada, già pronti per ascoltare.
È QUESTA dunque la masterclass nell’edizione «virtuale» del festival di Nyon, in corso fino al 2 maggio, con la regista francese Maitre du Reel 2020, una scelta che potrebbe apparire strana pensando ai film di Denis, dalle memorie dell’infanzia africana di Chocolat (1988) alla fantascienza emozionale di High Life (2018), alle sue storie di vampiri, amanti, notti che cambiano per sempre la vita, corpi che occupano sensualmente ogni inquadratura, accarezzati con dolcezza pure se crudeli. Ma in quei corpi che si annusano, fatti di carne, vene, sangue, delle carezze, delle labbra, della sensualità, di piaceri che a volte non si possono avere c’è una sostanza profonda di realtà, come in ogni immagine libera da costrizione di genere, fatta di luce, tempo, emozioni.
E può accadere in spazi anonimi, tra le strade della metropoli, nei luoghi chiusi di un abitacolo spaziale o in una vettura. Epifanie. Forse è per questo che Claire Denis ama lavorare con le stesse persone, come la direttrice della fotografia Agnés Godard, lo sceneggiatore Jean-Pol Fargeau, i Tindesticks nelle colonne sonore, gli attori, Alex Descas o Isaach De Bankolè, icone dei suoi film.
GLI INCONTRI sono importanti nel suo fare cinema. Quello con Wenders, per esempio, di cui è stata assistente sul set di Paris, Texas (1984): «Allora cominciavo a non avere più voglia di fare l’assistente nei film di altri, avevo un mio progetto che ho mostrato a Wim, lui mi ha incoraggiata a girare un film mio. Non lo conoscevo personalmente prima di quel lavoro insieme, avevo visto i suoi film alla scuola del cinema, mi avevano colpita come quelli di Fassbinder e di Herzog… Anche Jim Jarmusch (di cui è assistente per Down by Law, 1986, ndr) è stato un incontro importante, sono andata con lui in Louisiana, era formidabile, quei luoghi mi ricordavano l’Africa della mia infanzia non tanto fisicamente ma nelle emozioni, la troupe trovava molte affinità tra me e i cajun, mi chiedevano spesso da fare da interprete ma io non capivo una parola».
Poi c’è Jane Campion, immagini quelle della regista neozelandese che lasciano il segno. «Quando ho visto i suoi film ho avuto subito voglia di conoscerla, è stata una rivelazione, mostravano un punto di vista, uno sguardo che non potevano appartenere a nessun altro che a lei».
È CINEFILA Claire Denis, lo è sempre stata. Così come sin da piccola guardava tantissimi libri di fantascienza, un film come High Life non arriva per caso, così come le creature eccentriche, vampiri della vita e del desiderio in Trouble Every Day (Cannibal Love). Luoghi del cuore, della memoria come l’Africa, delle passioni? «Se penso al territorio come a qualcosa di fisico faccio fatica a delimitarne uno, potevo girare i miei film qua o là, perché il punto di partenza per me sono state sempre le persone. Non sono un’avventuriera o una viaggiatrice però se voglio seguire qualcuno che mi piace allora non esistono più delle frontiere. Ricordo che quando giravamo in America con Wim il paesaggio era bellissimo eppure non riusciva a appassionarmi, era il suo paesaggio, apparteneva a lui, al film che stava girando. Mentre se pensavo al Camerun ecco che le strade, la luce, le città mi emozionavano. Quando abbiamo finito Paris, Texas ho iniziato a scrivere la sceneggiatura di Chocolat insieme a Jean-Pol Fargeau, era molto importante un confronto. Nel frattempo come dicevo sono andata sul set di Jim, avevo bisogno di soldi…».
«LAVORARE sempre con le stesse persone significa comprendersi, condividere la stessa direzione. Vale anche per le attrici o gli attori, non li scelgo perché sono bravi, deve esserci un’attrazione reciproca. Non c’è nulla di più sensuale che filmare qualcuno e scoprirne la bellezza, è una seduzione reciproca che l’attore infonde col suo corpo, con la sua voce al personaggio. E che deve vibrare nel film altrimenti non funziona, lo sguardo di Agnès (Godard) sa cogliere questi legami, sa come illuminare un volto che può racchiudere in una sola inquadratura l’intero film». E questo vale per tutto il resto. Come la musica, che nei suoi film è protagonista quanto i personaggi senza mai invadere.
I Tindesticks Claire Denis li ha incontrati dopo un concerto al Bataclan, a Parigi, aveva appena finito la sceneggiatura di Nenette et Boni (1996), voleva utilizzare la loro canzone, My Sister. E invece? «Hanno letto la storia, gli è piaciuta moltissimo, mi hanno chiamata proponendomi di scrivere tutta la colonna sonora a partire dal tema della canzone. Così è stato ogni volta, per High Life sono arrivati in Germania dove giravamo con una nuova versione rispetto a quella che avevo sentito prima delle riprese della canzone cantata da Robert Pattinson. Una sorpresa».
A proposito, da quale suggestione è nato il film, High Life? Che è anche il suo primo film in inglese, immerso nella via lattea lungo la traiettoria di un viaggio senza ritorno. «C’erano delle suggestioni che avevo avuto già ai tempi di Trouble Every Day sull’isolamento, la malattia, il desiderio che si fa più forte nella solitudine. Così ho immaginato quest’uomo rimasto solo, l’equipaggio è morto, gli è rimasto un neonato. Ho immaginato lo spazio come un luogo di conoscenza in cui l’essere umano può ripensare ai propri tragitti. Ho incontrato Aurelian Barrau, un astrofisico specializzato nei buchi neri, avevamo bisogno di qualcuno che ci spiegasse le cose in modo semplice perché non ci perdessimo durante la scrittura nelle nostre elucubrazioni».
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