Dopo giorni di annunci e contro-annunci, un Consiglio nazionale elettorale in clamorosa crisi di credibilità ha proclamato domenica i «risultati definitivi» delle elezioni del 7 febbraio in Ecuador, respingendo la richiesta del candidato indigeno Yaku Pérez di un riconteggio delle schede e ufficializzando quindi l’ingresso al ballottaggio, insieme ad Andrés Arauz, del banchiere Guillermo Lasso, per appena 32.600 voti.

Il clima politico resta tuttavia molto teso, come indica anche la decisione della Procura generale di realizzare una perizia forense sul sistema informatico del Cne, accogliendo la richiesta del candidato di Pachakutik, ma scatenando in tal modo le accese proteste di Lasso e di Arauz contro quella che hanno definito come un’illegale intromissione in materia elettorale.

Dal Belgio è intervenuto anche l’ex presidente Rafael Correa, gridando al colpo di stato e denunciando un tentativo di sequestro dei computer del Cne per impedire lo svolgimento del secondo turno delle elezioni.

Una denuncia a cui la Procura ha risposto smentendo categoricamente che la perizia possa «interferire in alcun modo con il processo elettorale in corso». Del resto, se con la proclamazione dei risultati definitivi i giochi sembrano ormai fatti, Yaku Pérez non è disposto in alcun modo ad arrendersi, annunciando una resistenza sia sul piano legale che su quello sociale e politico.

E con lui è schierata una parte importante del movimento indigeno, impegnato in una «marcia per la pace in democrazia» che, partita mercoledì da Loja, nell’estremo sud del paese, arriverà oggi a Quito per esigere dal Cne la massima trasparenza. Sarà la nona volta negli ultimi 30 anni che gli indigeni marceranno sulla capitale per protesta, quando è ancora assai vivo il ricordo della rivolta dell’ottobre del 2019.

A mobilitarsi sono le basi indigene riunite nella Confederazione dei popoli di nazionalità kichwa dell’Ecuador (Ecuarunari) e nella Confederazione delle nazionalità indigene della Costa (Conaice), a cui si è aggiunto anche il Fronte unitario dei lavoratori.

Ma, al di là delle divisioni e dei risentimenti che hanno accompagnato la candidatura di Pérez, è l’intero movimento indigeno che sembra serrare le fila attorno alla richiesta del riconteggio delle schede.

Così, a esigere trasparenza e rispetto della volontà popolare sono anche la Confederazione delle nazionalità dell’Amazzonia (Confeniae) e il Movimento indigeno e contadino di Cotopaxi di Leonidas Iza, il volto più noto dell’insurrezione del 2019, come pure la stessa direzione della Conaie, la Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador. Con un avvertimento: qualsiasi accordo di Pachakutik con altre organizzazioni politiche dovrà avere il consenso delle basi.

Ma se il timore è quello di un’alleanza con Lasso nel segno dell’anti-correismo, è stato lo stesso Pérez a escludere qualsiasi patto con la destra. Resta il fatto che, come ha riconosciuto lo stesso candidato indigeno, il risultato ottenuto da Pachakutik «è già una vittoria».

Con i suoi 27 seggi all’Assemblea nazionale, il braccio politico della Conaie non ha ottenuto solo il miglior risultato della sua storia, diventando la seconda forza politica più importante dopo la Unión por la esperanza di Arauz (con 49 seggi): come ha evidenziato l’economista di sinistra Pablo Dávalos, ex ministro di Correa da cui ha poi preso nettamente le distanze, il movimento indigeno avrà la possibilità, grazie anche alla sua forza organizzativa e alla sua capacità di mobilitazione, di condizionare «l’agenda, i contenuti e il ritmo della politica del paese».