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Perché la scuola non si rassegnerà a Renzi

Perché la scuola non si rassegnerà a Renzi

Ddl Scuola La legge non va corretta in corso d’opera. Serve un referendum abrogativo

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 10 luglio 2015

Mentre non si ferma la protesta del mondo della scuola, e non si fermerà nei prossimi mesi, è stato approvato oggi il ddl sulla scuola. C’è stato bisogno della fiducia al Senato e della blindatura del testo alla Camera.Un modo di procedere autoritario e arrogante, ma soprattutto un atto irresponsabile. Matteo Renzi sa bene, almeno lo sa qualcuno del suo staff, che da settembre la scuola sarà in un caos totale. Le assunzioni dei precari sono diminuite – da un annuncio all’altro, da un emendamento all’altro – da 148.000 a 100.000 circa fino ad arrivare alle attuali 60.000, banalmente il normale turn over. Poi altre in corso d’anno. Forse.

I nodi vengono al pettine: e anche le bugie. Se non si approva il ddl non potranno esserci tutte le assunzioni, si diceva. Non sarà così.
Il ddl è stato approvato ma le assunzioni non saranno per tutti (ad alcuni sarà graziosamente concessa la possibilità di fare un altro concorso) e saranno centellinate nel tempo.E ancora, per giustificare la volontà di non fare il decreto per le assunzioni, l’argomentazione ossessivamente ripetuta era: «non si possono fare le assunzioni dei precari nella scuola così com’è». E invece le nuove norme su organizzazione e gestione del sistema andranno in vigore dal 2016. Ma allora? Perché si continua a giocare sulla pelle delle persone? Perché non si tiene in nessun conto una protesta civile e composta come quella della stragrande maggioranza del mondo della scuola?

Perché non si è mai tentata con la scuola e le sue rappresentanze un’interlocuzione positiva? Che non è sicuramente quella del «vi ascolto ma poi decido io». Perché si è continuato a ripetere che la gente non capiva, fino ad arrivare alla farsa del gesso e della lavagna? Forse vale la pena riassumere i termini generali, entro i quali il dibattito si è sviluppato. Un dibattito che, come non accadeva da decenni, ha coinvolto non solo gli addetti ai lavori ma una larga e significativa parte dell’intellettualità di questo Paese, anch’essa inascoltata.

Lo scontro non è stato di tipo ideologico, innanzitutto. Non si sono confrontati una scuola «di sinistra» contro un governo «di destra», per usare delle semplificazioni pure molto diffuse. Si tratta invece di un mondo, quello degli insegnanti innanzitutto, e poi delle famiglie e dei ragazzi, che da sempre si «prende cura» della scuola, che è in ogni paese civilizzato la garanzia di un futuro migliore, comunque. Ecco, diciamo che lo scontro è tra chi pensa che della scuola pubblica ci si debba prendere cura per il valore costituzionale che rappresenta e chi invece la paragona ad un’azienda, verso cui vanno applicati esclusivamente principi aziendali.Qualcuno l’ha già pensato in passato, Tremonti e Gelmini, per esempio. In quel caso tagli pesantissimi. In questo caso presidi manager, insegnanti scelti dai capi di istituto e una nuova gerarchia tra le scuole, avviando una competizione che rischia di lasciare indietro proprio quelli che hanno più bisogno. Secondo un modello che paesi come gli Stati uniti stanno dismettendo.Ma a tanti, dentro e fuori la scuola, interessa soprattutto che la scuola continui a formare ragazzi che sanno. Conoscono. Riflettono. Imparano. Tutte cose che vanno al di là di una mera filosofia aziendale, non ci sono cattivi da punire con trattenute di stipendio, o bravi da incentivare con regalie in denaro.
C’è un intero sistema che va accudito con la cura che merita. È questo l’errore, stavolta sì ideologico, del governo attuale come di quelli precedenti: l’incapacità di misurarsi con la scuola come sistema, e non come un semplice insieme di istituti e persone che vi lavorano dentro. Perciò questa legge non può essere corretta in corso d’opera come sostiene qualcuno, anche in queste ore. Perciò occorrerà un referendum abrogativo.Lo sa bene il popolo della scuola ( insegnanti, studenti, anche tantissimi dirigenti) che continua e continuerà nei prossimi mesi ad essere in piazza, unito come non mai, combattendo una battaglia che ha il respiro largo delle grandi battaglie civili. Come da tempo non avveniva. Non sono persone che non hanno l’ardire dell’innovazione o patiscono la paura di essere valutate. Sono persone che sanno bene come funziona la scuola, a differenza dei tanti che ne scrivono sulle pagine della stampa nazionale guidati solo da impressioni o vecchi pregiudizi.

Sono quelli ai quali un recentissimo rapporto Ocse riconosce sempre migliori capacità di governare e migliorare il sistema pubblico della scuola italiana in una società che cambia. Difendere la scuola pubblica ormai è questo, un vero e proprio scontro di civiltà, termine abusato quanti altri mai, ma forse il più adeguato. La scuola pubblica è civiltà. È patrimonio genetico si può dire, del nostro vivere. Questo va fatto capire ai giovanotti del governo, alla loro visione «smart» ed «easy» del fare politica e del governare. Riportarli nel mondo reale, di cui la scuola è maestra e specchio come nessun’altra istituzione. Abbiamo ancora tutti da imparare dalla scuola. Soprattutto loro.

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