Sono stati 978, di cui 142 con più di 15.000 abitanti, i comuni dove domenica 12 giugno si è votato per eleggere il sindaco e rinnovare il Consiglio comunale. Sono stati chiamati alle urne quasi 9 milioni di italiani sulla base di una legge, la n. 81 del 25 marzo 1993, che ha introdotto l’elezione diretta del sindaco e affidato la nomina dei consiglieri a un sistema maggioritario che attribuisce alla coalizione vincente almeno il 60% dei seggi.

LA RIFORMA DEL ‘93 interveniva per sanare la situazione di instabilità amministrativa nella quale si trovavano molti comuni italiani ma anche per porre un freno alla crisi di credibilità nella quale erano incorsi i partiti della cosiddetta Prima Repubblica a partire dall’89 e in seguito al terremoto politico provocato dalle inchieste giudiziarie di Tangentopoli.

Il sistema elettorale individuato, sostituendo al proporzionale il maggioritario, ha privilegiato l’obiettivo della governabilità a scapito della rappresentanza ma, almeno nella prima fase di applicazione della riforma, ha consentito agli stessi partiti di selezionare i sindaci fra le figure di maggior spicco nelle città, come mostrano gli esempi di Roma con Francesco Rutelli, Napoli con Antonio Bassolino, Palermo con Leoluca Orlando, Catania con Enzo Bianco, Cosenza con Giacomo Mancini.

A quasi trent’anni dall’introduzione della riforma si possono, tuttavia, cogliere anche i non pochi limiti della legge. Il principale di questi è forse quello di aver impresso un’accelerazione alla crisi dei partiti, aggravando cioè proprio uno dei mali che si voleva combattere. Al sindaco, scelto direttamente dagli elettori, corrispondono infatti maggiore autonomia e più ampi poteri, tra i quali quello di nominare e di revocare gli assessori, ma con il risultato di depotenziare i consigli comunali che non rappresentano più il tradizionale punto di partenza di una carriera politica, la palestra di formazione per incarichi di livello superiore.

Inoltre, se per i comuni più piccoli, con popolazione cioè inferiore a 15.000 abitanti, vi è l’obbligo di stringere alleanze per formare un’unica lista di candidati alla carica di consigliere, nei comuni più grandi la possibilità di associare al candidato a sindaco un numero indefinito di liste agevola il trasferimento di voti fondati sull’opinione politica a quelli di natura familiare e clientelare.

TRA I 26 CAPOLUOGHI di provincia e di regione, che da soli rappresentano un terzo dell’elettorato chiamato al voto domenica 12 giugno, si osserva una proliferazione di liste la cui rilevanza non è, come forse si potrebbe immaginare, riconducibile alla classica divaricazione nord/sud. È a Gorizia, infatti, che si registra il più alto numero di candidati consiglieri, quasi 19 per ogni mille abitanti, mentre a Palermo sono l’1,4 su mille. La distinzione passa piuttosto tra grandi e piccole città.

Come Palermo, anche Genova, la seconda città per dimensione chiamata al voto, ha candidato l’1,4 per mille dei suoi elettori mentre Frosinone il 18 per mille. La maggior distanza fra candidati ed elettori che si registra nelle città più grandi rende il voto più politico, meno soggetto a condizionamenti di tipo familiare e clientelare.

Negli anni, tuttavia, si è registrato ovunque un considerevole incremento delle liste ammesse al voto comunale. Il 12 giugno l’elettore di Taranto potrà scegliere tra 27 liste mentre erano 16 quelle presenti alla prima elezione dopo la riforma; a Padova si passa da 14 a 24; Verona raddoppia, da 13 a 26; Parma e Catanzaro hanno 23 liste ciascuna mentre ne avevano, rispettivamente, 11 e 9 nel ‘94. In parallelo le liste di partito, il cui numero è rimasto sostanzialmente invariato, hanno perso peso e importanza.

SE, POI, TRA GLI OBIETTIVI della legge vi era anche quello di frenare l’astensione, i dati mostrano che neppure questo risultato è stato raggiunto. Nonostante l’elezione diretta del sindaco e la pletora di candidati consiglieri, è cresciuto l’astensionismo che ha evidentemente radici ben più profonde che non il solo desiderio dei cittadini di contare di più con l’espressione del proprio voto.

Subito dopo la riforma Palermo registrò un’affluenza alle urne del 68% dei suoi elettori e l’11 giugno del 2017, quando si sono svolte le precedenti elezioni comunali, è stata del 53%. Genova è crollata dal 79% del ‘93 al 48% del 2017, Verona dall’82% al 59%, Parma dall’84% al 54%.

Pare, dunque, che gli obiettivi fissati dalla riforma elettorale del ’93 non siano stati pienamente conseguiti. Al sacrificio della proporzionale rappresentanza degli elettori in Consiglio comunale, che consegue dall’attribuzione del premio di maggioranza, è corrisposta una maggiore stabilità delle amministrazioni comunali ma anche un ulteriore indebolimento della politica che ha finito per favorire l’ascesa di gruppi di potere locale non di rado, particolarmente al Sud, intrecciati con la criminalità organizzata.

IL RITORNO A UN SISTEMA elettorale di marca più proporzionale potrebbe favorire una nuova vitalità dei partiti che, oramai scomparsi in molte città, dovrebbero invece tornare a occupare il ruolo fondamentale previsto per loro dall’art. 49 della Costituzione. La stabilità che si ottiene concentrando il potere in poche mani non produce di per sé buoni risultati. L’accordo raggiunto dopo una faticosa mediazione fra interessi diversi può produrre effetti anche più duraturi e utili. In ogni caso, se non si vuole rinunciare al totem del maggioritario alcune correzioni andrebbero certamente fatte per stemperare almeno gli effetti più vistosamente negativi del sistema attuale.

Il numero massimo di candidati per lista non dovrebbe superare il rapporto dei due terzi degli eleggibili, tenuto conto che alla coalizione vincente è assegnato il 60% dei seggi che compongono il Consiglio comunale.

Ancora più importante è il limite da porre al numero di liste ammesse al voto, imponendo ad esempio la presenza di non più di una lista civica per coalizione. La riduzione del numero dei candidati a consigliere e la riemersione dei partiti dovrebbero favorire la ripartenza del dibattito politico all’interno delle città che, per dirla con il Cattaneo, rappresentano «il principio ideale delle istorie italiane».