Natalia Vorozhbyt è regista di teatro e di cinema. Dopo lo scoppio della guerra del Donbass, nel 2014, ha deciso di mobilizzarsi in prima persona e, con l’associazione da lei stessa fondata Theatre of Displaced People, ha lavorato nelle regioni contese dell’Est dell’Ucraina. Negli anni, incontrando le persone direttamente investite nel conflitto, sia civili che miliari, Vorozhbyt ha raccolto una serie di storie. Quattro di queste sono venute a costituire l’opera teatrale Bad Roads, che in seguito è diventata un film presentato alla Settimana della critica di Venezia nel 2020 e che ora viene distribuito nelle sale italiane.

NESSUNA di queste storie mette in scena dei combattimenti. Ma tutte hanno a che vedere con la zona che il conflitto tra l’esercito ucraino e i separatisti filorussi ha creato intorno a se, come fosse il precipitato d’una nuvola radioattiva. In questa zona, esiste solo il potere di fatto e nessun diritto nel senso che noi attribuiamo a questo concetto, così che ogni relazione umana si può trasformare improvvisamente in una lotta a morte per il riconoscimento. La macchina da presa è lì a registrare questa antropologia elementare.
Nel primo racconto, un uomo arriva in macchina ad un posto di blocco dell’esercito ucraino. Un soldato si avvicina e gli chiede i documenti. Il guidatore, chiaramente ubriaco, gli porge un passaporto che si scopre non essere il suo. A partire da quel momento, tutto diventa possibile. Tra i due protagonisti, ai quali presto si aggiunge l’ufficiale in comando del posto di blocco, ogni cosa può accadere. L’apparenza della loro relazione è veicolata dal linguaggio ordinario. E il linguaggio è carico di convenzioni che hanno un certo senso dentro uno Stato di diritto, ma che nella situazione nuova, data dalla guerra, sono come statue senza piedistallo. Le altre tre storie approfondiscono questa situazione di sfasamento della comunicazione per cui un modo di parlarsi che si è costituito nella consuetudine di rapporti relativamente civili tra le persone si trova ad essere usato dentro uno stato di natura.

IN QUESTO SFASAMENTO la sorpresa è permanente. Nel racconto centrale, il più duro del film, una donna ostaggio di un miliziano riesce a invertire i rapporti di forza con il proprio aguzzino utilizzando la forza delle parole, come una moderna Sherazade. Quando la scena comincia, il miliziano si rivolge alla propria vittima con le parole di un signore al proprio schiavo. Ma col proseguire della conversazione, in lui emerge suo malgrado il linguaggio di un adolescente che, maldestramente, cerca di intrattenere una compagna di scuola. L’ultimo racconto, di certo il più teso del quartetto, illustra una storia a cui si fa allusione nel precedente. Una donna dall’aspetto borghese e sofisticato bussa alla porta di una casupola per dire di aver inavvertitamente ucciso un pollo con la propria macchina. Ancora una volta, con la sola forza delle parole, la coppia di vecchi contadini proprietari dello sfortunato pollo, facendo leva sull’obbligo morale, riescono a manipolare l’altra fino a farla cadere nella loro trappola – come una mosca in una ragnatela. La forza del linguaggio non è nella retorica. Ma nelle convenzioni che sono sciolte nel parlato come zucchero nel tè. E che spinge alcuni a illudersi di vivere ancora in un mondo di rapporti morali. E gli altri a trarne profitto.

IL TITOLO stesso induce in errore. La «cattiveria» delle strade non è solo morale ma essenziale. Non sono strade «cattive» perché vi avvengono degli orrori. O almeno non solo. Ma piuttosto perché, contravvenendo alla loro stessa essenza, non portano in nessun luogo. Tutti e quattro i racconti mettono in scena dei vicoli ciechi, delle prigioni, delle barriere. Si potrebbe pensare che questo Bad Roads erediti la staticità del teatro. In realtà, è l’esatto contrario: l’idea che il film cerca di trasmettere implica una forma in cui tutta l’azione viene costretta dentro una scatola. Il Donbas stesso non è altro che una grande scatola abitata da persone imprigionate in una situazione da cui cercano disperatamente di uscire. Invano, e solo per constatare che tutte le strade riportano al punto di partenza.