La stretta di mano era durata circa un minuto. Il palcoscenico era l’hotel Shangri-La di Singapore e il menù della cena prevedeva gamberi, asparagi fritti e noodles piccanti. Il tutto bagnato da due bottiglie di Kaoliang, il liquore prodotto nelle Kinmen. I due astanti erano Xi Jinping e Ma Ying-joeu. Era il 7 novembre 2015. Da lì a poco, a Taipei sarebbe arrivata Tsai Ing-wen sull’onda del “movimento dei girasoli”.

Tra telefonate di Donald Trump e legami strategici con gli Stati Uniti da una parte, muscoli in bella mostra e pressioni militari dall’altra, il dialogo politico tra le due sponde dello Stretto si è interrotto. Solo quello politico, però. Perché i rapporti commerciali sono andati avanti. E per certi versi anche quelli diplomatici, solo senza la rappresentanza dei rispettivi governi. Il ruolo di “ambasciatori” è ricaduto sui colossi tecnologici.

Esempio recente sui vaccini. La distribuzione dei sieri BioNTech-Pfizer è detenuta in esclusiva dalla Fosun Pharma di Shanghai anche per Hong Kong e Taiwan. Nel momento di maggiore bisogno di dosi, il governo di Taipei ha sfruttato la non ufficiale ambasciata di Foxconn e Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (Tsmc). I due giganti taiwanesi, entrambi molto presenti nella Repubblica Popolare, hanno concluso un accordo con Fosun per l’acquisto di 10 milioni di vaccini.

Ancora più recente l’accordo, anticipato dal Nikkei Asia, tra Tsmc e Oppo. La produttrice di smartphone cinese con sede a Dongguan sta sviluppando una propria linea di chip per produrre in casa ed evitare così le turbolenze esterne in un settore sempre più cruciale. Lo farà grazie alle tecnologie di Tsmc, che dovrebbe condividere il processo produttivo a tre nanometri. Un’operazione che consentirebbe anche un abbattimento dei costi del 50% coi chip di nuova generazione che sarebbero installati negli smartphone in uscita tra 2023 e 2024.

Gli Stati Uniti stanno cercando con sempre maggiore insistenza di tagliare fuori la Cina dalle catene di approvvigionamento del settore, con Pechino che nel suo ultimo piano quinquennale ha stanziato 1,4 trilioni sulle industrie strategiche, con oltre 90 nuovi stabilimenti pianificati o già entrati in funzione chiamati a fabbricare e assemblare semiconduttori. Lavoro nel quale, per ora, Taiwan domina sia quantitativamente sia qualitativamente con il controllo di oltre il 50% del mercato mondiale. Da tempo, gli Usa cercano di tagliare il cordone tecnologico e commerciale che unisce Taipei e Pechino.

Ma reciderlo non è semplice, per diversi motivi. Il primo è commerciale: ancora nel 2020 il mercato cinese contava il 17% per le esportazioni Tsmc. E dopo il ban trumpiano il posto del gigante di Hsinchu è stato preso da un altro competitor taiwanese, MediaTek, che ha nel frattempo conquistato una posizione dominante nella catena di approvvigionamento dei marchi cinesi di smartphone con il 54,1% delle spedizioni. Il secondo motivo è strategico. In assenza di scambi politici ufficiali intrastretto, l’industria dei semiconduttori è una leva importante a disposizione di Taipei nei confronti di Pechino.

Non a caso più volte è stata sottolineata la necessità della pace per garantire le forniture. Significativo che Tsmc possa mettere a disposizione di Oppo, che insieme a Xiaomi è in grande ascesa dopo i problemi di Huawei (in una dinamica simile a quella avvenuta in precedenza tra Huawei e ZTE), una tecnologia in grado di far produrre chip più avanzati rispetto a quelli a 5 nanometri che si produrranno nello stabilimento che dovrebbe entrare in funzione nel 2024 in Arizona. Il tutto mentre, per ora, Tsmc resiste alle richieste di Washington sulla trasmissione di informazioni sensibili su clienti e produzione, ufficialmente dovute alla carenza globale di chip e potenzialmente mirate a ridurre la dipendenza da Taipei e costruire una produzione onshore che Morris Chang (fondatore di Tsmc) ha definito “impossibile”.

Ad aprile Tsmc ha invece interrotto, dopo le insistenze di Biden, le spedizioni alla Tianjin Phytium Information Technology, impegnata nello sviluppo dei supercomputer. Se si completasse la recisione di quel cordone tecnologico non si interromperebbero solo forniture e relazioni commerciali, ma anche le relazioni diplomatiche non ufficiali.