In un’intervista fatta mesi fa, Katya García-Antón, co-curatrice e commissaria del Padiglione Sámi che lo scorso anno, per la prima volta nella storia della Biennale di Venezia, ha visto un padiglione nazionale (quello dei paesi nordici) trasformarsi in un padiglione indigeno, affermava: «La Biennale deve guardare al futuro, perché non può continuare con questo tipo di modello di fiera mondiale, con questa struttura di stato-nazione. Prima o poi andrà ripensato perché sempre più persone lo sta mettendo in discussione, e il potere del mondo indigeno globale lo sfiderà sempre di più». Pare che l’annuncio della partecipazione brasiliana alla 60ª Biennale di Arte di Venezia che si terrà il prossimo anno, con il ribattezzato Pavilhão Hãhãwpuá organizzato dalla Fundação Bienal de São Paulo – un’altra biennale che si impone al mondo attraverso la curatela di 3 (su 4) persone nere – in collaborazione con il Ministero degli affari esteri e il Ministero della cultura brasiliano, le stia dando ragione. Il nome «Hãhãwpuá» è usato dal popolo Pataxó per riferirsi al territorio che, dopo la colonizzazione, divenne noto come Brasile, ma che prima ha avuto molti altri nomi.

RESTA DA SPERARE che quest’anno la Biennale di Venezia si dimostri più lungimirante nelle proprie posizioni. «Abbiamo avuto momenti difficili con la Biennale – ha spiegato García-Antón – Non volevano permetterci di chiamare il padiglione Sámi. Abbiamo avuto una discussione di un anno con loro. È stata una grande battaglia e, alla fine, non erano comunque d’accordo, quindi abbiamo dovuto mettere un virgolettato attorno al nome del «padiglione Sámi» in modo che diventasse un titolo. Ma anche così, hanno comunque perso la battaglia perché quando abbiamo presentato per la prima volta il Padiglione Sámi alla stampa, lo abbiamo lanciato nel modo in cui volevamo. Era la cosa più importante per noi perché volevamo raggiungere i media».
Il Pavilhão Hãhãwpuá presenterà la mostra – curata da Arissana Pataxó, Denilson Baniwa e Gustavo Caboco Wapichana – Ka’a Pûera: nós somos pássaros que andam (siamo uccelli che camminano), di Glicéria Tupinambá insieme alla sua comunità e ad altri ospiti. L’esposizione affronta temi di emarginazione, deterritorializzazione e la violazione dei diritti della terra, invitando a riflettere sulla resistenza e sull’essenza condivisa dell’umanità, degli uccelli, della memoria e della natura. Glicéria Tupinambá è stata incarcerata nel 2010 e vive la traiettoria degli indigeni Tupinambá. Stranieri nel loro Hãhãw (territorio ancestrale), i Tupinambá furono considerati estinti fino al 2001, quando lo Stato brasiliano riconobbe finalmente che non solo non erano mai stati sterminati, ma erano anche attivi nella lotta per recuperare il loro territorio e parte della loro cultura che era stata rimossa dalla colonizzazione. La mostra congiunge la prospettiva di Foreigners Everywhere, tema della Biennale, alla realtà delle popolazioni indigene del Brasile, così come nel mondo intero, la cui storia comprende secoli di emarginazione nel proprio territorio.

CONCLUDE García-Antón: «Mi rammarica non essere riuscita a convincere la Biennale della necessità di questo cambio di nome. Non si sono davvero mossi dalla loro posizione. Ma forse questo ha creato un precedente, che potrà essere utilizzato da altre persone per combattere più battaglie su questo fronte, e andranno oltre, quindi, è un inizio». A distanza di un anno dall’intervista, l’annuncio.