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Partigiano e medico in divisa italiana

Partigiano e medico in divisa italianaAmilcare Scalinci e il personale sanitario – Jože Milcinski -National Museum of Contemporary History, Slovenia

La storia Grazie alle ricerche de «il manifesto» e del «Primorski Dnevnik», ritrovata la famiglia di Amilcare Scalinci, il tarantino che fu il direttore di un ospedale della Resistenza jugoslava

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 27 marzo 2021

«Li abbiamo trovati!» grida al telefono Sandor Tence, editorialista del Primorski Dnevnik, il quotidiano di Trieste in lingua slovena. Dopo un anno di ricerche, sono stati rintracciati i figli del medico italiano che era stato direttore dell’ospedale partigiano Bobovec. «Grazie al manifesto» dice Sandor «grazie a voi che ci avete aiutato in questa difficile ricerca».

SANDOR VOLEVA trovare i parenti di quel direttore da quando i pochi resti dell’ospedale Bobovec erano stati rintracciati nel fitto della foresta di faggi che ricopre gran parte del Kocevski Rog, altopiano carsico pieno di grotte e doline nella Slovenia meridionale, dove, durante la guerra di liberazione jugoslava, avevano funzionato a turno 24 ospedali clandestini (arriveranno a 120 in Slovenia). Erano stati i figli di due medici di Bobovec a cercare testardamente e a trovare le tracce rimaste delle baracche che per quattro anni avevano visto funzionare l’infermeria, la chirurgia, la cucina, la lavanderia di un ospedale che poteva ricoverare un centinaio di persone.

Niente elettricità, niente acqua corrente, i bombardamenti, e quel luogo nascosto, con un direttore italiano che si chiamava Scalinci e di cui, finita la guerra, si era persa ogni traccia. Medici e infermieri che riuscivano a salvare vite compiendo operazioni delicatissime o fornendo medicine a chi li raggiungeva perché gli ospedali partigiani non curavano solo i partigiani combattenti: l’occupazione significava persone in fuga, paesi abbandonati, gente costretta a nascondersi perché con figli o fratelli tra i partigiani. L’epopea degli ospedali partigiani in Slovenia è stata raccontata in molte pubblicazioni, in Jugoslavia, perché è stata davvero un modello di organizzazione e di efficienza.

 

Sloveni che hanno ritrovato l’ospedale Bobovec (foto Jože Milcinski -National Museum of Contemporary History, Slovenia)

L’OSPEDALE Bobovec, i suoi pochi resti, sono riemersi dalla terra nel maggio dell’anno scorso. Le costruzioni di legno non esistono più ma un mucchio di mattoni mostra dove probabilmente si trovava la cucina o forse una grossa stufa, un poco più in là il resto della piastra superiore del fornello. E poi, ancora, un altro pezzo di metallo più grande, che forse è un resto del sistema con cui i partigiani deviavano il fumo nel terreno perché non si disperdesse nell’aria.

Le interviste rilasciate al Delo, quotidiano di Lubiana, dai protagonisti del ritrovamento, i racconti dei loro padri, riescono anche a far sorridere per i mille inconvenienti ed i personaggi più vari che erano stati lì, ma sono racconti spesso densi della tragedia inumana che quella guerra senza quartiere era stata: «È stato davvero brutto per mio padre durante l’offensiva tedesca del 1944» racconta il figlio dell’infermiere Palcic «erano nascosti in fondo alla dolina con bambini che, ovviamente, piangevano e donne arrivate da Žumberak con il seno mozzato, «per non allattare i bambini partigiani, e lui lavò le loro ferite con acquavite fatta in casa. Esperienze davvero difficili».

Trovato l’ospedale, era necessario trovare quelli che a Bobovec avevano lavorato, per mettere una targa ricordo e pensare ad una cerimonia alla presenza di chi c’era e dei figli e nipoti di chi c’era stato.

È COMINCIATA così la ricerca della famiglia del direttore Amilcare Scalinci le cui tracce sembravano nascere e sparire: una scheda del 1944 con i suoi dati anagrafici e l’attestazione che aveva fatto parte dal 9 settembre 1943 della Cankarjeva Brigada. Poco e niente anche dal fascicolo matricolare o dall’ordine dei medici in Italia.

Associazioni partigiane, uffici e archivi, appassionati di storia, un cocciuto fitto passaparola, e Sandor Tence che restava in contatto con tutti, che scriveva a tutti, nel nome di quel giornalismo curioso che vuole arrivare a capo della ricerca che ha cominciato anche se tutte le strade sembrano interrompersi e non portare a niente. «Grazie al manifesto» ripete al telefono e lo scrive anche sul Primorski, «è stato l’unico giornale in Italia a riprendere il mio appello» a unirsi alla rete tesa tra la Slovenia e l’Italia. Ed è stata proprio quella notizia sul manifesto a finire tra le mani di Simone Scarinci che vi ha riconosciuto il nonno Amilcare e ha deciso di mettersi in contatto con Tence.

UN TASSELLO dopo l’altro, il quadro si è completato. Dal Museo della città di Novo Mesto arriva la breve biografia della partigiana – e infermiera a Bobovec – Marija Kopac, prima moglie di Scalinci che con lui e la figlia Adriana, dopo la guerra, si era trasferita in Puglia. Non è chiaro dove fosse Scalinci prima del 1943: la sua storia sembra iniziare dopo l’8 settembre, quando decine di migliaia di soldati italiani avevano ingrossato le file della resistenza jugoslava o erano avventurosamente rientrati in Italia grazie all’aiuto della gente che li aveva nascosti, rivestiti, rifocillati.

Ora di Luigi Amilcare Scalinci, direttore di un ospedale partigiano con la divisa da tenente medico italiano, sono stati trovati Adriana e Paolo, i suoi figli, e con loro i suoi nipoti; poco sapevano di Bobovec ma si sono dichiarati subito felici di potergli rendere onore, con una targa in memoria, quando si potrà, nel bosco di faggi del Kocevski Rog.

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