Cate Blanchett con la combinazione di colori del suo vestito firmato Jean-Paul Gaultier ha portato sul tappeto rosso la bandiera palestinese, mentre sugli schermi della Quinzaine des Cinéastes prima che inizi la proiezione appare: «Sous les écrans la dèche» in sostegno alla lotta dei lavoratori precari nei festival che stanno questi giorni contrattando il loro statuto. «Vogliamo un Festival senza polemiche» aveva detto il direttore artistico, Thierry Frémaux alla vigilia dell’inaugurazione. Ma può davvero la politica rimanere fuori dall’evento più esposto mediaticamente al mondo? Ci sono i film, certo, quelli che dichiarano la loro natura «politica» a partire dal soggetto vedi il Trump giovane di The Apprentice di Ali Abbasi, che arriverà nelle nostre sale in autunno, in modo netto, con l’evidenza dell’aria dei tempi – come ci dice Paul Schrader fare un film «impegnato» può essere molto semplice. È questo ad essere «politico»? O c’è altro?

E CHE FILM è Parthenope, il nuovo Paolo Sorrentino, arrivato sulla Croisette avvolto dal mistero, unico titolo italiano in concorso per la Palma? Immaginifico come sempre è il regista napoletano, che ama le iperboli, i pieni e le folgorazioni. Un film di miti, fantasmagorie, credenze popolari, stereotipi, storia e presente lungo oltre settant’anni, in cui Sorrentino – sua la sceneggiatura – ritrova la luce morbida di Daria D’antonio, e Napoli come nel precedente È stata la mano di Dio, in una dimensione che ne esaspera l’ iconografia. Alla città si intreccia l’esistenza di una donna che ne attraversa i passaggi e le mutazioni, cerca i suoi misteri, si lascia avviluppare ma solo per fuggire lontano. Parthenope si chiama come la sirena della giovinezza, come la leggenda da cui si dice sia sorta Napoli. È nata in acqua, nel mare davanti alla villa di famiglia, bellissima, amata fin troppo, desiderio impossibile, fantasia irrequieta e in fuga da sé, dai rimorsi, dai luoghi, dall’amore. Il futuro è imprevedibile, troppo grande per noi dirà al primo giovane amante (Dario Aita).

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Paolo Sorrentino tra il munaciello e Maradona: «Ho fatto un piccolo film per congedarmi dal mio vecchio modo di fare cinema» Lei va veloce, determinata, nei dolori e negli istanti di felicità, e affronta i rischi dei ritratti femminili nello sguardo del maschile che si impigliano fra i suoi stanchi fantasmi sempre in cerca di certezze, che sublimano e insieme intrappolano. Si può essere geniali, ribelli e felici da qualche parte nel quotidiano, non per forza condannate alla solitudine pure se donne curiose, lievi, profonde, indocili, come Parthenope ma è, appunto, questione di punti di vista – tutto il cinema o la narrazione lo sono. Qui la tube – per dirla alla francese – del momento di passaggio è Cocciante, dichiara già una prospettiva, un angolo di visione. Se fosse questo il punto?

Chi è allora Parthenope affidata alla grazia luminosa di Celeste Dalla Porta (nell’oggi è Stefania Sandrelli), che Sorrentino accarezza con la sua macchina da presa lungo il filo del tempo, costruendo su di lei tutta la narrazione? Se non è Napoli né il suo doppio, è forse un possibile controcampo? Potremmo spingerci più in là e dire persino che vi si cela il regista, o almeno la sua ambizione di «(ri)fondare» l’immaginario napoletano. Fellinianamente. Parthenope ha un fratello un po’ più grande, Raimondo (Daniele Rienzo), lei è forte, lui fragilissimo. Gli ruba il letto a forma di carrozza che il padrino (Alfonso Santagata) aveva scelto per lui. Parthenope legge, studia, è intelligente, adora i libri di John Cheever, suo fratello invece rimane sempre un passo indietro. La guarda con adorazione, un amore che intreccia il desiderio per lei a quello del loro amico, quasi come nella mitologia degli dei; è geloso e insieme vuole stupire. Perché leggi cose tristi chiedono alla ragazza gli adulti, che non capiscono perché sia così bella e così seria. Della mamma ripete i gesti del trucco, il padre è silenzioso, depresso, una borghesia già decaduta prima di esserlo davvero.

A Capri arriva con fratello e amico, tre outsider, belli, giovani, sfacciati. Parthenope ruba gli occhi, le propongono di diventare attrice, un potente scende dal suo elicottero per averla, lei non cerca il sesso né la seduzione del potere, vuole parlare, tace, pensa qualcosa, incrocia i passi di Cheever con le sue molte bottiglie (Gary Oldman). È fantasia? È reale? Sono i sogni di una spensieratezza adolescenziale destinati a finire in fretta, a essere risucchiati nella cesura dell’età adulta di un dolore acuto? La notte è una danza di baci scatenata e di dolcezza, ma «era già tutto previsto». Il fratello si spezza e vola via dallo scontro della vita nella spuma del mare. La famiglia cade a pezzi, risucchiata nella tristezza di una strana follia. Per lei ci sono i libri, e quel professore all’università (Marotta un nome che è storia napoletana) austero e severissimo a cui chiede: cosa è l’antropologia? Imparare a vedere sarà la laconica risposta, entrambi anime ferite che si riconoscono, con lui che è un po’ padre, un po’ maestro.

INTANTO la città muta, quel futuro che non si poteva sapere si srotola nel presente: il colera, il ’68, il terremoto, lo scudetto. La camorra permea Napoli, e pure Parthenope, nei vicoli di miseria è padrona. Le famiglie si uniscono col sangue, nel letto davanti a tutti i due ragazzi dei clan rivali sono costretti a fare sesso. Lei continua a essere inafferrabile, vuole vedere – come le ha insegnato l’amato professore. Scoprire un volto nascosto di una antica bellezza agente di star distrutta dal botox (Isabella Ferrari) e ciò che cela la diva erotica piena di rabbia per la sua città (Luisa Ranieri). Altre donne, altri frammenti di un femminile schiacciato dalla propria immagine. Vedere, come conoscenza. Vedere non solo guardare. Il potere del cinema, delle immagini. È vero il miracolo del sangue di San Gennaro? Non si scioglie, il vescovo (Peppe Lanzetta) impazzisce, faranno sesso lui e Parthenope e lì nella bellezza di lei quel sangue diverrà liquido. Ironia? Commedia? L’ennesimo fantasma?

E ALLORA che suggerisce questa vita di fantasmagorie che proiettano lo sguardo dell’autore? Incantamento e tragedia. La realtà e la sua negazione. Sorrentino avanza in questa Grande bellezza napoletana (in cui stempera però il cinismo) con quella sua maestria visiva di stupefazioni. Convoca il teatro napoletano – e non solo per i molti attori che fanno parte del cast – di una rappresentazione secolare giocando con gli involucri più che nelle profondità per scrivere la propria immagine fatta di assoluti, di effetti e accumuli che non fanno respirare, di composizioni ricercatissime e anche un po fini a se stesse – tra i produttori pure qui Saint Laurent. Ma il cinema, quello che sa come far «vedere» rimane altrove.