Parole e pochi fatti, così si è dimezzata l’indagine sui dossier
Il caso Il teorema milanese sulla banda delle spie ridimensionato dal gip: né mafia né servizi segreti, ma un grande mercato di informazioni. Il peso delle intercettazioni: tante sparate non trovano conferme
Il caso Il teorema milanese sulla banda delle spie ridimensionato dal gip: né mafia né servizi segreti, ma un grande mercato di informazioni. Il peso delle intercettazioni: tante sparate non trovano conferme
La storia è la stessa, ma il gip di Milano Fabrizio Filice e il pm antimafia Francesco De Tommasi la raccontano in maniera molto diversa nelle rispettive carte giudiziarie. Il primo ritiene che la banda dei dossier vendesse segreti (e bugie) a imprenditori e notabili vari per motivi di arricchimento personale. Il secondo invece crede che la questione abbia riflessi eversivi e che la banda in realtà avesse come obiettivo quello di far tremare le fondamenta della Repubblica. Infatti evoca esplicitamente supposti «appoggi di alto livello», dalla «crminalità mafiosa» ai «servizi segreti, pure stranieri». Ci sarebbe, insomma, un secondo livello, dei misteriosi mandanti che si muoveva le proprie pedine per loschi fini. Chi fossero e quali intenzioni avessero, però, non sia.
È SULLA BASE di questa presunta pericolosità che la procura aveva chiesto tredici provvedimenti di custodia cautelare. Il giudice, però, ne ha concessi solo quattro (ai domiciliari) più due misure minori, la sospensione dal servizio per sei mesi del poliziotto e del finanziere coinvolti. La distanza tra le richieste del pm (che ricorrerà al Riesame) e l’ordinanza del gip è tanta e si può misurare con il volume degli atti prodotti: De Tommasi ha firmato 1172 pagine (consegnate in due tronconi: il 23 luglio in prima istanza, poi il 27 settembre è stata depositata un’integrazione), Filice meno della metà: 518.
A LEGGERE le carte, la differenza di interpretazione sta nel diverso peso che viene dato alle parole degli intercettati. Nella richiesta della procura, le conversazioni tra i membri della presunta associazione a delinquere (Samuele Calamucci, Giulio Cornelli, Massimiliano Camponuovo e Carmine Gallo) contengono in effetti molti elementi che fanno rumore. Si citano, ad esempio, le due più alte cariche dello Stato: Sergio Mattarella e Ignazio La Russa. Quando il 13 ottobre del 2022 Calamucci tira in ballo il capo dello Stato, sostiene di essere riuscito a «utilizzare abusivamente o a clonare» un account del Quirinale. Un fatto che il pm definisce «inquietante per i possibili scenari che apre» e che però resta lettera morta: non ci sono riscontri che sia mai accaduto davvero. È poi quantomeno lecito coltivare qualche dubbio in questo senso, perché la circostanza in cui viene tirato in ballo il presidente non è una trama di alto livello, ma gira intorno a una società che opera nella grande distribuzione degli ortaggi.
PER QUANTO RIGUARDA La Russa, invece, il 19 maggio del 2023, il presidente della Fondazione Fiera Enrico Pazzali (indagato) richiede esplicitamente un report su di lui e sui suoi cari, alla ricerca dei pregressi giudiziari contenuti nello Sdi, la banca dati del Viminale. Non si sa bene cosa sia venuto fuori, ma la circostanza dimostra che Pazzali non era, come sostiene il pm, il capo della banda, bensì uno dei tanti che se ne serviva per i propri affari. Il gip Filici la mette così: Pazzali «non ha alcun dominio sul funzionamento dell’organizzazione». Anche sugli eventuali collegamenti con mafia e servizi, nel raccolto dagli investigatori, non ci sono elementi diversi dalle parole degli stessi indagati. Che in più occasioni si abbandonano alla celebrazione di se stessi come geni del crimine e grandi imprenditori. Calamucci, il 30 settembre del 2022, cerca di spiegare a un suo collaboratore come funziona il business della sua agenzia di investigazioni: «Noi abbiamo la fortuna di avere clienti top in Italia… Contatti tra i servizi deviati e servizi segreti seri ce li abbiamo. Lì ti puoi fidare un po’ meno, però…». Parole. Anche pesanti se vogliamo. Ma di riscontri non se ne vedono. È tutto così in questa inchiesta: anche a guardare alle estrazioni irregolari dai database investigativi, non è che emergano fatti di particolare rilevanza: parliamo di informazioni per lo più note alle cronache o, al massimo, di natura patrimoniale.
NON MANCANO, soprattutto nel faldone della procura, le storielle inventate di sana pianta (per stessa ammissione degli indagati), le battute allusive e i fatti che si collocano al confine con la cronaca rosa: mariti che fanno spiare le mogli, chat dal contenuto non molto raffinato, messaggi scambiati di nascosto, tabulati del traffico telefonico. Non è un caso che gli indagati, in un’occasione, citino Miriam Ponzi, figlia ed erede del vecchio detective Tom, una celebrità fino agli anni ’70, tra indagini matrimoniali che spesso diventavano indagini patrimoniali, casi mediatici e clienti famosissimi ai tempi (gli Agnelli, Enzo Ferrari, Nelson Rockfeller, l’Aga Khan). Il milieu da cui vengono fuori i protagonisti di questa nuova storia di dossier e informazioni riservate, alla fine, è lo stesso: la palude dei segreti e delle spiate tra ricchi che non disdegnano la possibilità di dare un’occhiata agli affari degli altri come loro. E uomini disposti a offrirla per poco, questa occhiata.
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