Parigi in vigore a tempo (quasi) record
Cop 21 L’accordo sul clima globale entra in vigore in meno di un anno.
Cop 21 L’accordo sul clima globale entra in vigore in meno di un anno.
Con l’approvazione dell’India il 2 ottobre e poi dell’Ue il 5, l’Accordo di Parigi sul clima globale entra in vigore a tempo record, meno di un anno. Ci vollero invece oltre 7 anni per l’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto.
Il Protocollo di Kyoto però aveva una ambizione abbastanza marginale, anche se rappresentò un primo passo parziale per ridurre le emissioni a effetto serra. I 72 Paesi che hanno già ratificato l’Accordo di Parigi rappresentano quasi il 57% delle emissioni globali, superando anche se di poco la soglia legale del 55%. Al Consiglio Europeo dell’Ambiente del 30 settembre si era decisa la procedura rapida per consentire l’entrata in vigore dell’Accordo senza aspettare le ratifiche dei singoli stati, in questo modo l’Ue recupera un ruolo politico che in questi ultimi anni si è affievolito. Tutto ciò accade mentre il 2016 fa registrare nei primi sei mesi sei record consecutivi delle temperature globali: il semestre più caldo dal 1880.
Se l’entrata in vigore a tempo record è una buona notizia – solo la Convenzione sui diritti dell’infanzia fu più rapida – perché conferma la serietà dell’impegno politico assunto l’anno scorso a Parigi, adesso viene la parte più difficile: mettere in pratica i contenuti dell’accordo a partire dalla revisione degli impegni volontari, del tutto inadeguati al raggiungimento dell’obiettivo di Parigi di tenere l’aumento globale della temperatura ben al di sotto dei 2°C, meglio dei 1,5°C.
Gli impegni vanno rivisti al più presto e in modo serio. In attesa di vedere i contenuti della nuova direttiva Ue sulle rinnovabili, ci si può deliziare in Italia con il ministro Calenda che, in continuità con chi l’ha preceduto, si preoccupa di rallentare le rinnovabili e garantire un futuro certo alla produzione termoelettrica oltre che continuare a disegnare l’Italia come «hub del gas». È la Sen, bellezza: la «Strategia Energetica Nazionale» pubblicata alla fine del governo Monti.
Invece di buttarla nel cestino e riaprire una discussione seria sulla strategia energetica (e climatica), il governo continua a citarla come fosse una «linea Maginot» per il settore.
Nel mondo invece la dinamica è un’altra, per fortuna. Circa il 90% di tutta la nuova capacità elettrica installata nel 2015 è rinnovabile, con un nuovo record di investimenti globali. E, come ha evidenziato un recente report del Dipartimento Usa per l’Energia, dal 2008 al 2015 alcune tecnologie chiave hanno visto un crollo dei costi: l’eolico costa il 41% in meno, il solare a piccola scala è sceso del 54%, quello a grande scala del 64%, le batterie del 73% e i Led del 94%. In parte questa evoluzione è frutto degli gli incentivi alle rinnovabili soprattutto in Germania, Spagna e Italia che hanno spinto il mercato, e della Cina che ci si è buttata a capofitto.
Così una tecnologia pensata per i satelliti – i pannelli fotovoltaici – è diventata in poco tempo una «commodity globale» a costi sempre più bassi. Motivo per cui oggi la si ostacola con regole inadeguate e con la burocrazia in Italia: il livello delle rinnovabili va bloccato ai valori attuali fino al 2020 (è la Sen, bellezza). La linea è «abbiamo fatto abbastanza, fino al 2020 non facciamo più nulla». Questo è un errore strategico oltre che tecnico e risponde, chissà, a un input «fossile» che viene da una parte dell’industria energetica e non. Sulla mobilità e trasporti il governo punta con decisione sui combustibili alternativi (gas metano liquefatto o compresso) seguendo la strategia dell’industria nazionale che non crede nell’auto elettrica (Marchionne l’ha ribadito più volte).
Questa «alleanza del gas» coinvolge anche alcune grandi imprese come Snam, Iveco e Fca. Che il gas naturale abbia un ruolo nella transizione è chiaro, e nei trasporti pesanti in particolare. Ma l’evoluzione delle nuove tecnologie – le batterie per auto elettriche ad esempio – appare più rapida del previsto e, se le politiche non ne terranno conto, pagheremo questa linea di retroguardia – difendere il motore a combustione interna – a caro prezzo, e anche in termini occupazionali.
* direttore Greenpeace Italia
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